SALUTE: cure palliative, non solo questione medica
Ampio approfondimento del nostro settimanale
Un malato nell’ultima fase di vita va accompagnato certamente da un punto di vista clinico, ma anche psicologico e spirituale. Perché accanto al dolore fisico, che oggi sappiamo affrontare in modo efficace, c’è un senso di angoscia che va compreso e alleviato. Questo hanno insegnato tanti di anni di impegno nel campo delle cure palliative a Cosimo De Chirico, il “papà” del nucleo cure palliative dell’ex Ulss 7 di Pieve di Soligo di cui è stato coordinatore fino al novembre scorso, quando ha assunto l’incarico di direttore dell’unità di cure palliative all’Ulss 4 di San Donà di Piave. Pugliese di origine, De Chirico risiede a Follina e ha svolto tutto il suo percorso professionale, fino alla nomina a San Donà, nella struttura sanitaria pievigina: guardia medica, medico di famiglia, medico in casa di riposo, responsabile della gestione di paziente in stato vegetativo, coordinatore del nucleo aziendale di cure palliative. Nucleo che assiste circa 600 malati all’anno, con circa 430 decessi, l’80% dei quali in casa o all’hospice Antica Fonte di Vittorio Veneto. È il referente palliativista della Regione Veneto.
Nell’Azione di domenica 9 febbraio vi è un’ampia intervista a De Chirico. Qui proponiamo solo alcuni estratti.
«Tradizionalmente le cure palliative si occupavano solo di malati oncologici nelle ultime settimane di vita – spiega De Chirico -. Dall’esperienza e dai dati della letteratura è sempre più evidente l’utilità di occuparsi precocemente dei malati che si avviano alla fine della vita e non solo quelli affetti da tumori, bensì tutti i malati. Studi dimostrano che prendendo in cura precocemente le persone con malattia cronica, che sta evolvendo senza alcuna possibilità di guarigione, questi malati vivono più sereni, meno depressi, con un miglior controllo del dolore e dei sintomi e minore sofferenza; per contro non subiscono interventi terapeutici e diagnostici futili e ostinati, accessi in pronto soccorso e ricoveri inappropriati, che non aggiungono nulla alla qualità della loro vita».
«Ai malati in fase terminale – prosegue il medico - non servono rigidi protocolli standard, che sono propri degli interventi per i malati acuti, come avviene in ospedale. Ha senso fare l’ennesima Tac, o altro accertamento, che non può aggiungere nulla a quanto già si sa per la cura del malato? I bisogni delle persone e le loro aspettative cambiano con l’evoluzione della malattia. Se nella fase iniziale della insorgenza di un tumore il paziente è disposto ad accettare i protocolli terapeutici e chirurgici, anche se invasivi, pur di tenere viva la speranza per una possibile guarigione, in una fase avanzata di malattia, quando la guarigione non è più possibile, il malato, se adeguatamente informato, non è più disposto ad accettare protocolli standard di cure che non abbiano l’obbiettivo esclusivo del sollievo. E non è solo una questione di disponibilità della morfina».
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