La Corte costituzionale boccia il referendum sulla legge elettorale
Non ammesso perchè il sistema, dopo l’eventuale abrogazione, non sarebbe immediatamente applicabile. Il quesito era stato proposto da otto consigli regionali
Non ci sarà un referendum abrogativo sull’attuale legge elettorale. Dopo una lunga camera di consiglio, infatti, la Corte costituzionale ha deciso che il quesito proposto da otto consigli regionali guidati dal centro-destra è inammissibile. E il motivo è quello che già alla vigilia si intravedeva: il sistema che sarebbe sopravvissuto dopo l’eventuale abrogazione non sarebbe stato immediatamente applicabile e non è possibile che la Repubblica resti priva anche per un tempo limitato di una legge per eleggere il Parlamento. Su questo punto la Consulta è sempre stato molto coerente con se stessa.
L’iniziativa referendaria, volta a cancellare la parte proporzionale del sistema in vigore, era stata fortemente voluta dalla Lega e da Fratelli d’Italia. Eliminata la parte proporzionale, preponderante nell’attuale normativa, tutti i seggi di Camera e Senato sarebbero stati assegnati in collegi uninominali con il sistema maggioritario.
In questo modo anche con una maggioranza relativa lontana dal 50% dei voti sarebbe stato possibile acquisire la maggioranza assoluta in Parlamento.
Soltanto con il deposito della sentenza, che dovrà avvenire entro il 10 febbraio, si conosceranno tutti i dettagli delle argomentazioni che sono prevalse nel giudizio della Corte costituzionale – un giudizio che ha richiesto un lungo confronto – ma intanto è noto il loro nucleo fondamentale, sintetizzato nel comunicato dell’ufficio stampa della Consulta. Per quanto sintetico, il testo diffuso necessita di qualche spiegazione per essere compreso dai non addetti ai lavori. Nel passaggio centrale si legge che “per garantire l’autoapplicatività della ‘normativa di risulta’ – richiesta dalla costante giurisprudenza costituzionale come condizione di ammissibilità del referendum in materia elettorale – il quesito investiva anche la delega conferita al Governo con la legge n. 51/2019 per le ridefinizione dei collegi in attuazione della riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari”. A fronte di questo, l’”assorbente ragione” (quindi prevalente anche rispetto ad altri profili) che ha fatto decidere la Corte in senso negativo, sta nella “eccessiva manipolatività del quesito referendario nella parte che riguarda la delega al Governo, ovvero proprio nella parte che, secondo le intenzioni dei promotori, avrebbe consentito l’autoapplicatività della ‘normativa di risulta’”.
Per capire bisogna fare un passo indietro. In vista della legge costituzionale che ha tagliato drasticamente il numero dei parlamentari, la precedente maggioranza di governo aveva fatto approvare una legge ordinaria (la n. 51 citata dal comunicato) che delegava il governo a ridisegnare i collegi elettorali alla luce dell’assai ridotto numero di deputati e senatori da eleggere. E questo entro 60 giorni dall’entrata in vigore della legge costituzionale taglia-parlamentari. Tale delega non è stata ancora utilizzata per il semplice motivo che la legge costituzionale in questione non è entrata in vigore poiché su di essa pende il cosiddetto “referendum confermativo”. Sull’esito di quest’altro referendum, quando si terrà tra alcuni mesi, non ci sono molti dubbi, ma intanto la legge costituzionale resta sospesa e così pure la delega.
Proprio tale delega, pensata per un’altra legge, era stata indicata dai promotori del referendum sul sistema elettorale come il loro asso nella manica. Infatti, il problema dell’immediata applicabilità delle norme sopravvissute all’eventuale abrogazione (l’autoapplicabilità di cui parla il comunicato della Consulta) appariva legato soprattutto a un fatto: eliminata la parte proporzionale dal sistema attuale, il sistema residuo non sarebbe stato automaticamente operativo a causa della necessità di ridisegnare tutti i collegi elettorali. Secondo i promotori, questo problema sarebbe stato superato proprio dalla delega al governo che avrebbe potuto provvedere alla ridefinizione dei collegi, per adeguarli non alla riduzione dei parlamentari (così com’era in origine) ma alle esigenze del nuovo sistema elettorale maggioritario. Un ragionamento un po’ acrobatico che, evidentemente, non ha convinto la Corte costituzionale.
Bisognerà leggere il testo integrale della sentenza per sapere in che cosa consista esattamente l’“eccessiva manipolatività” del quesito referendario nei confronti di tale delega. Si possono fare delle ipotesi attingendo al dibattito tra giuristi che ha preceduto la decisione della Consulta. Molti erano stati i profili problematici evidenziati. Le leggi di delega, per esempio, devono avere contenuti ben delineati e indicare tempi certi. In questo caso la delega era stata concepita proprio per un’altra legge e non si sarebbe saputo neanche da quando far decorrere i 60 giorni, dato che erano stati indicati per un’altra evenienza.
Adesso la parola torna al Parlamento. Si parte dalla proposta di legge, condivisa da quasi tutta l’attuale maggioranza e già all’esame della commissione affari costituzionali della Camera, di un sistema proporzionale con una soglia di sbarramento al 5%. La scelta del sistema proporzionale, al di là delle convenienze di partito che sono speculari a quelle per cui Salvini avrebbe voluto il maggioritario, serve anche a compensare l’effetto della riduzione del numero di parlamentari che di per sé produce una notevole riduzione anche dei livelli di rappresentanza, premiando i partiti più forti.
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