Mons. Giacinto Marcuzzo, vescovo da 25 anni: “Abbattere i muri di divisione”
La festa lo scorso 30 settembre, in Cattedrale.
Il 3 luglio 1993 a Gerusalemme veniva consacrato vescovo mons. Giacinto-Boulos Marcuzzo. Nato a San Polo di Piave, al tempo aveva 48 anni. Venticinque anni dopo ha ricordato in cattedrale a Vittorio Veneto (TV) la propria ordinazione, presiedendo la messa di domenica 30 settembre nell’anniversario della dedicazione della chiesa.
Venticinque anni di episcopato sono un traguardo importante. Guardando indietro e ripensando alle origini, si aspettava che dal Papa venisse questa richiesta?
«Pensando alle mie origini, ero ben lontano dall’aspettarmi la sorpresa della nomina all’episcopato, persino di immaginarla! Nel ‘93 ero rettore del seminario del Patriarcato Latino di Gerusalemme a Beit Jala. Il 12 maggio 1993, venne in seminario il card. Silvestrini, Prefetto della Congregazione per le Chiese d’Oriente, che si trovava in Palestina per altre ricorrenze. Senza tanti preamboli, mi disse che il Santo Padre voleva eleggere nuovi vescovi ausiliari a Gerusalemme e mi chiese a brucia pelo: “Accetta di diventare vescovo ausiliare del Patriarca di Gerusalemme?”. Vi fu uno scambio di battute, pacato ma molto franco e animato, piuttosto lungo, che ricordo bene. “Non ci penso proprio - dissi - e poi, è contro il mio atteggiamento fondamentale di formazione, di pensiero e di azione: son venuto dal Veneto, con spirito missionario, e mi son formato qui per servire meglio la Terra Santa, aiutarla nella promozione e crescita della sua Chiesa locale. Tutto il mio lavoro è favorire numerose vocazioni, preparare buoni sacerdote e, se Dio vuole, far emergere bravi vescovi da e per questa comunità. Non io, ma loro”. Il cardinale, diplomaticamente, rispose: “Appunto! Da vescovo potrai realizzare ancora meglio il tuo sogno missionario di servizio della Chiesa locale… Ti posso dire che il Papa ha già firmato la tua nomina il 29 aprile scorso. Canonicamente, sei sempre libero di accettare o meno, ma pensaci bene. Rifiutare una volontà espressa del Papa e della Santa Sede è una responsabilità…”. Ancora incredulo e sorpreso, ma con molta lucidità, risposi: “Eminenza, ho promesso al Signore disponibilità totale, e ai Superiori obbedienza. Se questa è la volontà di Dio, accetto, e che lo Spirito Santo mi dia luce e forza, e mi guidi”. A sorpresa mi rispose in arabo: “Mabruk”. E aggiunse: “Benvenuto nel collegio episcopale. Che il Signore ti aiuti”».
In questi 25 anni sono accadute tante cose: nella Chiesa, nel mondo, in Terra Santa... Se dovesse scegliere una cosa bella che ha vissuto in questi anni, quale indicherebbe?
«Come potete immaginare, molti eventi felici sono accaduti in questi anni… Mi soffermo su un evento ecclesiale che fu il capolavoro pastorale del Patriarcato, più precisamente del Patriarca Michel Sabbah, in questa generazione e fu fonte di grande gioia e profitto per tutta la comunità: il Sinodo pastorale diocesano (1993-2009) di tutte le Chiese cattoliche di Terra Santa. Un evento ecclesiale che durò 16 anni di intensissimo lavoro (in fasi di preparazione, celebrazione, decisione e applicazione), a livello dei quattro Paesi di Terra Santa, e delle sette diocesi cattoliche. Un Sinodo che non si celebrò con alcune assemblee di rappresentanti e delegati, ma con un lavoro capillare della base. Un Sinodo basato sul “metodo Emmaus”, in pratica sul trinomio “vedere-valutare-agire”, che ci mise in una profonda e sincera discussione sul positivo e negativo del nostro essere chiesa Madre di Gerusalemme. Un Sinodo che ci fece ripartire nell’anno 2000 con un “Piano pastorale generale” con molto entusiasmo pastorale. Un Sinodo, infine, che fu una rinnovata incarnazione, nello spazio, nel tempo e nelle persone, del Concilio Vaticano II. Un Sinodo che, grazie a Dio, fu un vero soffio dello Spirito, un’occasione di conversione, rinnovamento autentico per vescovi, sacerdoti, religiosi e fedeli. Durante il mio episcopato è stato certamente l’evento nel quale mi buttai totalmente, corpo e anima, e mi entusiasmò. Il mio augurio è che ogni diocesi faccia l’esperienza di un Sinodo diocesano così costruttivo e fruttuoso».
E una fatica o una preoccupazione con cui ha dovuto misurarsi?
«Le cause di sofferenza e di preoccupazione sono state numerose… La sofferenza più grande e la più sentita è di gran lunga la mancanza di pace e di stabilità, la mancanza di sincera volontà di pace. Vorrei soffermarmi su un avvenimento particolare ben preciso che mi occupò e preoccupò per ben cinque anni: la spinosa questione di Nazareth (1997-2002), a causa di una grande moschea che alcuni musulmani volevano costruire, proprio accanto alla basilica dell’Annunziazione, più alta della basilica, su un terreno del demanio statale, senza nessuna base legale e di diritto e legale. Una questione che seguii “minuto per minuto”. Non si trattava per niente di una questione religiosa, di rapporti cristiani-musulmani, né di un bisogno di una moschea. Ma di una questione puramente politica e persino elettorale, coperta da pretesti religiosi: una strumentalizzazione vera e propria della religione per la campagna elettorale di alcuni ambiziosi arrivisti, tramite la fomentazione del fanatismo, così infiammabile e forte nel Medio Oriente, e la conquista facile di voti. Numerosi musulmani si schierarono in difesa dei cristiani, della Basilica dell’Annunziazione, dei tradizionali buoni rapporti tra le due comunità. Si creò un clima sociale deplorevole che ruppe le buone e secolari relazioni cristiani-musulmani in Galilea, che disturbò per cinque anni la vita sociale e a tutti i livelli, soprattutto in Galilea. Per fortuna, non ci furono vittime. Quando già avevano cominciato i lavori delle fondazioni, quasi per miracolo, il 2 luglio 2002 arrivò la soluzione, grazie all’insistenza e al coraggio di Giovanni Paolo II e per merito di certe autorità locali e internazionali. I lavori di costruzione si fermarono, si ristrutturò il progetto iniziale di una piazza e un parco pubblica: l’armonia sociale della città, ma posso dire anche della Galilea e della Terra Santa, era salva con tutte le conseguenze positive che ne derivano. Un grande movimento di riconciliazione ripartì per ricostituire l’armonia del tessuto sociale. Mai come in quel momento mi rallegrai del motto episcopale che avevo scelto nel 1993: “Solvens parietem” (Ef 2,14), cioè “abbattere i muri di divisione”, per fare l’unità e la pace, e per creare un uomo nuovo, come dice San Paolo. Quei muri che in Terra Santa sono numerosi e passano nei cuori e nelle famiglie, tra i villaggi e le comunità, tra le religioni e culture».
Quali sfide e quali opportunità intravede per il futuro della Chiesa in Terra Santa e nel Medio Oriente?
«Naturalmente, ci sono diverse sfide e opportunità. La sfida più profonda e globale è la ricerca della pace e l’opportunità più interessante per il futuro è la scuola e l’educazione. In tutti i paesi della Terra Santa, quasi ogni parrocchia ha una scuola completa, parificata e riconosciuta. Le Scuole cristiane sono le migliori, sia per i risultati accademici, quanto per l’educazione cristiana o interreligiosa. Sono la migliore garanzia per il futuro della fede cristiana in generale e della Chiesa in particolare, per una sana integrazione di tutti gli studenti, per la preservazione e la promozione della cultura e dell’identità, e dunque sono il migliore e sicuro fondamento della pace. Naturalmente, non è facile iniziare e mantenere una scuola. Le famiglie dove sobbarcarsi l’onere e gli impegni di questa istituzione così importante. Nella misura delle loro possibilità, lo fanno volentieri. Ma in questo campo siamo aiutati da alcune Conferenze episcopali, diocesi, fondazioni culturali e soprattutto dall’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, ai quali va tutta la nostra riconoscenza. Davanti a queste sfide e opportunità, c’è un immane lavoro da compiere. Mi permetto di citare a memoria un pensiero di Carlo Carretto, che dal profondo del deserto scriveva: Alla base del mio amore per la Chiesa sta il bellissimo disegno d’amore del Padre… Nell’attesa che venga il Regno, sii tu degno figlio del regno. Nell’attesa della giustizia e della pace, fa tu nella tua vita giustizia e pace… Nell’attesa della riconciliazione, del perdono e della liberazione, sii tu riconciliato e riconciliatore, perdonato e datore di perdono, libero e liberatore».
Alessio Magoga
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