È un tempo che fa quasi perdere la speranza, quello che stiamo vivendo, per le tante situazioni di guerra che sembrano germinare senza fine, per l’insignificanza in cui sembra relegata la Chiesa, per un certo modo di vivere che chiede di essere sempre efficienti, capaci o vittoriosi e che ci fa arrancare, con l’impressione di essere sempre un passo indietro... Forse proprio per questo, come chiede il prossimo Giubileo dedicato alla “speranza che non delude”, è assolutamente necessario ritornare su questa virtù teologale: la “virtù bambina”, come l’ha definita Charles Peguy, che è tenuta per mano, sì, dalla altre due sorelle più grandi (la carità e la fede), ma che in realtà è proprio lei – la speranza – a condurre.
E come prima cosa – anziché affondare nel fango delle nostre quotidiane disperazioni o, peggio, nello stagno della rassegnazione che è il nome per eccellenza della negazione della speranza – dovremmo ricordarci che la speranza è una scelta. Lo ha ricordato suor Elena Ongarato, salesiana, in una recente proposta ai responsabili degli uffici pastorali diocesani: “Siamo quotidianamente chiamati a scegliere tra speranza e rassegnazione”, ha ribadito.
“Trovo bella la vita – ha scritto Etty Hillesum, la scrittrice ebrea olandese morta ad Auschwitz nel ‘43 – e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave”. Come a dire che, nonostante tutte le difficoltà della vita, c’è del buono in questa esistenza. Si tratta di sceglierlo e di volerlo vedere. Si tratta di riconoscerlo e di volerlo condividere chiamandolo per nome. Vincendo quello stupido pudore che porta a ritenere più intelligente ed arguto chi mette l’accento sul disincanto e sulla delusione, ed a bollare come ingenuo e sognatore chi scorge dei, seppur tenui, bagliori di speranza.
Gustav Klimt, il celebre artista austriaco scomparso nel 1918, nella sua opera intitolata “Speranza – 1” rappresenta la speranza come una donna incinta. Sullo sfondo del dipinto compaiono immagini diafane e mortifere; anche il corpo della donna appare emaciato, mentre dal suo volto traspaiono fermezza e serenità, perché la donna sa che la vita – il bambino che porta in grembo – è più forte delle forze del male e della morte. La speranza, infatti, si impasta necessariamente con il dolore e la fatica, che non sono mai una ragione sufficiente – una buona scusa – per non sperare più. La speranza – come una bambina piccola, come una donna incinta – ha bisogno di aiuto e di cura e rinvia necessariamente al sostegno ed all’accudimento reciproco, perché è la virtù della fraternità.
Alessio Magoga