Calo dei matrimoni: tre motivazioni
Sul tema del netto calo dei matrimoni religiosi, abbiamo intervistato il sociologo Vittorio Filippi
Redazione Online
26/02/2019

"Matrimoni dimezzati”. Così scrivevamo nella prima pagina dello scorso numero dell’Azione. Nella nostra diocesi, infatti, i matrimoni concordatari (cioè, celebrati in chiesa) in dieci anni si sono dimezzati: da 783 a 400. Ciò è in linea, purtroppo, con quello che avviene nel Triveneto (e in Italia). Dopo aver raccolto le analisi di fratel Enzo Biemmi e don Roberto Bischer (pubblicate sempre sullo scorso numero), ecco le valutazioni del sociologo trevigiano Vittorio Filippi.Da un punto di vista sociologico, come legge il fenomeno?«Il “tonfo” dei matrimoni, a mio avviso, ha tre radici. Una è di carattere demografico e consiste nel calo netto della popolazione giovane dei potenziali nubendi, cioè quella che potrebbe contrarre matrimonio. Questo è ormai un dato di fatto strutturale. La seconda radice è di tipo culturale, collegata ad un certo iper-romanticismo imperante che considera l’amore come bastevole a se stesso, autosufficiente. La terza radice invece è di carattere socio-religioso e riguarda l’allontanamento dei giovani dalla fede. Se è vero, come dice il teologo Armando Matteo, che i giovani-adulti di oggi rappresentano la “prima generazione incredula”, non si può pretendere, di conseguenza, che considerino il matrimonio come sacramento e che quindi si sposino in chiesa».Anche i matrimoni civili sono in calo, ma in modo inferiore rispetto a quelli concordatari. Come lo spiega?«I matrimoni civili non soffrono della terza radice della crisi di quelli religiosi. Mi riferisco alla scristianizzazione: nei matrimoni civili non entra in crisi l’aspetto sacramentale, semplicemente perché non c’è. Inoltre, i matrimoni civili accolgono i secondi o i terzi matrimoni, cioè accolgono le nuove nozze dei divorziati. Si pensi che in Veneto le rotture coniugali sono circa un terzo dei matrimoni celebrati: quelli civili, quindi, sono gonfiati dalle rotture delle coppie che hanno smarrito o esaurito la loro identità comune. In misura molto minore, si sposano in Comune anche le coppie miste che “bypassano” le diversità religiose attraverso il matrimonio civile. Va detto però che, se la tendenza è quella della diminuzione dei matrimoni, anche quelli civili col passare del tempo conosceranno una contrazione. La società in cui noi viviamo, infatti, è stata ben definita da una studiosa francese come la società del “démariage” (società della “de-matrimonializzazione”, ndr): una società dove il matrimonio è ritenuto ormai culturalmente poco fondante l’identità sia della coppia, sia della persona, sia della dimensione religiosa».Se calano di più i matrimoni religiosi rispetto a quelli civili, si può pensare che la difficoltà delle coppie all’impegno matrimoniale sia più forte per i primi?«Il matrimonio religioso è certamente più esigente di quello civile: richiede una consapevolezza diversa e un’adesione di tutti e due i nubendi agli stessi valori. Il matrimonio religioso domanda quindi un “di più” che non è detto esserci in tutte le coppie. A volte, poi, non c’è la simmetria, cioè i due sposi non danno la stessa importanza al discorso sulla fede… Se non ci sono queste condizioni basilari, l’opzione matrimonio “in chiesa” non prosegue».Condivide quanto dice il direttore del Censis, secondo il quale l’istituto del matrimonio nel giro di pochi anni – e precisamente entro il 2031 – è destinato a scomparire?«Il dato non va certo preso alla lettera: è una bella provocazione, molto efficace. Non credo però che il matrimonio scomparirà: semplicemente diventerà – specie quello in chiesa – una scelta minoritaria di quelle coppie che hanno motivazioni forti, coltivate e condivise. Non sarà più un fenomeno di massa, come fu ad esempio negli anni ’60. Inoltre, credo che il fatto di essere minoritario lo farà diventare qualitativamente migliore. Poi, che il matrimonio diventi un fenomeno minoritario è nel destino delle cose, perché ci sono meno giovani: è anche una questione demografica».Secondo lei, tutto questo cosa chiede alla Chiesa e alla società?«Alla Chiesa, questo stato di cose pone una domanda forte: se il matrimonio non sarà più un fenomeno di massa, essa dovrà avviare dei percorsi e una pastorale più mirati e più dedicati, sapendo che stiamo andando verso scelte di fede minoritarie, non più scontate e condivise da tutti. Per la società, credo si tratti di favorire delle politiche familiari e, all’interno di queste, politiche della natalità e della genitorialità a sostegno delle coppie. Per entrambi (Chiesa e società), è opportuno avviare percorsi di formazione all’affettività e alla sessualità di coppia, di cui la sessualità è un sottoinsieme e non viceversa: dall’affettività alla sessualità, ma non solo a quella, perché la sessualità senza affettività è povera, anche dal punto di vista semplicemente umano. Personalmente, credo molto nei percorsi di preparazione: sono un’opportunità di formazione religiosa, per quanti sono credenti, e di acquisizione di consapevolezza di ciò che significa la vita di coppia e la vita affettiva, per credenti e non. Credo che questi percorsi siano un’occasione dal punto di vista antropologico estremamente importante. Va detto poi che i corsi di formazione non sono un compito solo della Chiesa: questo non è scritto da nessuna parte! Avere delle coppie che funzionano, infatti, è un ottimo strumento di coesione e di qualità sociale. Conviene a tutti: alla Chiesa e alla società».Alessio Magoga