Alla fine, dopo un lungo testa a testa, ha vinto il candidato di Centrodestra, Marco Bucci, sindaco di Genova. Andrea Orlando, del Centrosinistra, è stato superato di circa ottomila voti (un distacco che vale l’1,4%). Nei pronostici il risultato non era affatto scontato, anzi. Il terremoto giudiziario dei mesi scorsi, che aveva portato prima ai domiciliari e poi alle dimissioni il Presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, sembrava poter avvantaggiare, in modo decisivo, il Centrosinistra.
Così, invece, non è stato. Probabilmente Bucci, che non ha fatto mistero di essere malato di cancro, è stato ritenuto cedibile, proprio come persona, da una parte significativa dell’elettorato ligure (anche se si nota una flessione nella città di cui è sindaco, cioè Genova). Inoltre, il Centrodestra si è presentato unito e, nonostante Fratelli d’Italia abbia raggiunto solo il 15% (molto al di sotto del dato nazionale), ha conseguito complessivamente un risultato “insperato” alla vigilia delle elezioni. Per quanto riguarda il Centrosinistra, il Pd di Elly Schlein ha ottenuto un vero e proprio successo, confermandosi il primo partito in Liguria con oltre il 28% delle preferenze: è il chiaro segno che la linea politica dettata dalla segretaria incontra il favore di molti ed è capace di coagulare attorno a sé un importante consenso (in Liguria certamente ma anche a livello nazionale).
Si tratta, quindi, per la Schlein e per il suo partito di un’importante conferma. Sono andati male, invece, i Cinquestelle, con solo il 4,5% dei voti (e solo un consigliere eletto in Regione), responsabili, tra l’altro, dell’esclusione di Italia Viva dal “campo largo” ligure: la sua presenza, come non si è trattenuto dal rilevare Matteo Renzi in un post al vetriolo, avrebbe potuto portare quelle poche migliaia di voti sufficienti per vincere le elezioni. Il M5Stelle, in effetti, si trova in un momento di grande crisi, palesata in modo quasi ufficiale dallo “scontro totale” tra Giuseppe Conte, attuale presidente M5Stelle, e Beppe Grillo, fondatore del Movimento, che “defenestrato” proprio in questi giorni dalla sua creatura non ha fatto mistero che non sarebbe andato a votare (nella “sua” regione) e quindi non avrebbe dato la sua preferenza al Movimento. Potrebbe trattarsi di una crisi di passaggio, come altre che il Movimento ha già attraversato (il tramonto della piattaforma Rousseau con il divorzio dai Casaleggio; lo strappo di Luigi Di Maio e la scissione di “Insieme per il futuro”, solo per citare due eventi “macroscopici”).
Il Movimento, attualmente, può ancora contare su importanti bacini di voto, soprattutto nel Mezzogiorno. Potrebbe, tuttavia, anche trattarsi dell’avvicinarsi del capolinea di un’esperienza politica, decisamente originale, che ha conosciuto troppe trasformazioni per potervi rintracciare ancora l’identità (e gli ideali) delle origini. Degli slogan “apriremo il parlamento come una scatoletta di tonno” o “abbiamo abolito la povertà”... che cosa resta oggi? Inoltre, è facile immaginare che tra Pd e M5S, ora, si apra una vera e propria resa dei conti, con il Pd che – giustamente – rivendicherà, una volta per tutte, il diritto di guidare il “campo largo” e di decidere chi ammettervi e chi no. E la presenza di una rappresentanza più di centro gioverebbe al “campo largo”.
Un’ultima parola (“in cauda venenum”!) merita il partito che ha stravinto in questa tornata elettorale, cioè quello del non-voto che ha superato il 50%. Non abbiamo più parole per dirlo (né per scriverlo!), ma questo dilagante astensionismo, segno di una diffusa sfiducia nei confronti del sistema-democrazia, come ha ben rilevato anche don Gian Pietro Moret nell’editoriale della settimana scorsa, è un dato tremendamente preoccupante.
Alessio Magoga