Sta facendo discutere una recente indagine sulla religiosità degli italiani (“Italiani, fede e Chiesa) commissionata dalla Cei e realizzata dal Censis (Centro Studi Investimenti Sociali), nell’ambito del Cammino sinodale della Chiesa italiana. I dati che emergono – così come "Avvenire" li ha resi noti nei giorni scorsi – si prestano a diverse (e contradditorie) interpretazioni.
Da un lato, infatti, l’indagine scorge alcuni interessanti segni di speranza. Ad esempio, oltre il 70% degli italiani si dichiara cattolico e quasi l’80% riconosce che la propria “cultura di origine” è di matrice cattolica; circa il 60% degli italiani crede nella vita dopo la morte e quasi il 70% riconosce che la vita spirituale è importante e prega (anche se prevalentemente in forma privata, non comunitariamente).
Dall’altro lato, appaiono decisamente più problematici – come peraltro è già abbastanza noto a tutti – il modo di percepire la Chiesa in quanto “istituzione” (alla quale si chiederebbe più coraggio e maggiore coerenza) e la pratica religiosa, soprattutto tra i giovani, che è segnata da un ulteriore calo nella frequenza, con il conseguente allentamento del legame con la comunità (parrocchiale)... Bene, verrebbe quindi da dire, ma non benissimo.
In attesa che siano pubblicati integralmente i dati dell’indagine, si possono già individuare – come di fatto suggeriscono gli stessi estensori della ricerca – alcuni temi chiave, almeno due, sui quali avviare una riflessione. Il primo è certamente il modo di vivere la spiritualità oggi, che è sentita sì come una dimensione importante della propria vita, ma viene poi sperimentata e vissuta individualmente. Il bisogno di spiritualità è quindi vivo, anzi in ottima salute, ma viene vissuto altrove rispetto ai luoghi consueti della pratica religiosa della comunità cristiana.
Il dato, di per sé, non è nuovo: è una conferma di una tendenza individualistica, in atto da tempo in vari campi, che porta al ripiegamento su di sé e alla presa di distanza dalle prassi comunitarie. Questa sfida, in un tempo di “individualismo imperante”, chiede alla Chiesa di oggi – cioè, alle nostre comunità parrocchiali – di mostrare che la dimensione comunitaria è un valore aggiunto e di farlo non semplicemente “proclamandolo a parole”, ma facendolo toccare con mano nella realtà dei fatti. Di qui l’urgenza di ravvivare il tessuto relazionale delle nostre comunità, perché siano effettivamente luoghi accoglienti ed attrattivi. La cosa non è facile, certo, ma non impossibile: esperienze positive cui ispirarsi, anche nella nostra diocesi, non mancano.
Un secondo tema, che l’indagine rivela e che ha sorpreso gli stessi estensori della ricerca, è la diffusa e persistente credenza nella vita dopo la morte. Non è difficile cogliere, in questo bisogno o in questo desiderio, un punto di contatto con il cuore del messaggio cristiano, vale a dire con l’annuncio della resurrezione di Cristo. Forse proprio a questa sfida, per la quale siamo assolutamente “ben attrezzati”, voleva alludere Enzo Bianchi, in un’intervista rilasciata nel novembre dello scorso anno: «La Chiesa troppo concentrata nelle proprie attività – tutte bellissime e preziose, tante come non mai in duemila anni di storia – ha perso un po’ di vista il suo messaggio fondamentale e straordinario: la speranza che la morte non sia l’ultima parola, perché con Cristo c’è la resurrezione. Torniamo a dire questo all’umanità».
Alessio Magoga