Omelia di mons. Martino Zagonel - Giornata della Dottrina Sociale della Chiesa
Sabato 7 luglio a Pieve di Soligo.
Omelia di mons. Martino Zagonel, vicario generale, tenuta alla messa celebrata sabato 7 luglio a Pieve di Soligo, nel contesto della Giornata della Dottrina Sociale della Chiesa, anteprima del Festival sul tema “La sfida della libertà e l’amore al bene comune. Dialoghi sull’Italia nella terra del beato Giuseppe Toniolo”che si terrà a Verona a novembre 2018.
A te alzo gli occhi, a te che siedi nei cieli…Come gli occhi di una schiava alla mano della sua padrona, così i nostri occhi al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi. Pietà di noi, Signore, pietà di noi.
Colpisce l’accoratezza di queste espressioni. Dice di un credente, meglio di un popolo che non ce la fa più da solo e ricorre al suo Dio e stabilisce con lui una lotta, un faccia a faccia fino a costringere il Signore a inchinarsi a pietà e a risollevare.
Pietà di noi, Signore, pietà di noi! Cosa sarà un popolo quando non saprà più invocare il suo Dio con parole simili a queste? E noi, popolo italiano, sappiamo ancora invocare così?
La supplica a Dio può nascere solo dalla presa di coscienza che le cose vanno male, che stiamo degradando, che stiamo perdendo dignità e umanità. Noi, popolo italiano, che consapevolezza abbiamo della nostra situazione, della qualità del nostro vivere umano, dello spessore del nostro vivere comunitario? Messi davanti allo specchio che idea possiamo farci di noi stessi? Ora il nostro specchio è la Parola di Dio!
Se chiamato in causa, il Signore risponde. Uno spirito entrò in me, dice il profeta Ezechiele, e mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava e mi disse: Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli di Israele. Tu dirai loro: “Dice il Signore”.
Ecco una prima indicazione: lo Spirito di Dio continua ad agire nella storia degli uomini. Non si sostituisce a loro, non agisce magicamente, piuttosto entra in loro e li fa agire responsabilmente. Interessanti le due azioni descritte: mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava.
Così agisce lo Spirito: scuote dall’indolenza, dall’apatia, dall’indifferenza, dal cinismo e poni in piedi; inoltre mette in ascolto. La profezia, di cui siamo tutti portatori in forza del battesimo, è sì capacità di affrontamento e di lotta ma questo avviene prestando udito, ascoltando, attraverso il lento e umile lavoro di confronto. Il profeta, contrariamente all’immaginario collettivo, è molto più un uomo di ascolto, di dialogo e di umile confronto che eroe solitario, sicuro di sé e presuntuoso.
Mi pongo la domanda: nella nostra società, nelle nostra chiesa ci sono luoghi di ascolto dove la parola scorre con franchezza e dove si arriva ad esercitare una profezia condivisa frutto della messa in comune della varietà dei doni e dei carismi?
Gesù a Nazareth. Venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Significativa questa piccola aggiunta: vuol dire che noi, suoi discepoli, lo seguiamo, lo dobbiamo seguire; anche la scelta che sta per fare è esemplare per noi!
La scelta di Gesù dice amore alla sua patria e insieme responsabilità verso di essa. Nazareth è il luogo del cuore, ma è insieme il luogo dove Gesù vuole riversare le primizie della sua opera di salvezza. Egli si sente in debito di riconoscenza verso la sua patria.
La patria è la terra dei padri. È il luogo della formazione della personalità e delle relazioni mai più cancellabili. Di fronte al dramma odierno delle migrazioni, forse non pensiamo abbastanza alla dimensione dello sradicamento, dello spaesamento, dello smarrimento delle relazioni native. Ogni uomo ha diritto di appartenere ad un gruppo sociale e, se è costretto a perdere quello nativo, ha il diritto di ritrovarne uno di nuovo. Questa oggi è una grande sfida per tutti.
La sinagoga era il luogo della formazione degli adulti. Una formazione con due poli: l’ascolto della storia e della sapienza dei padri e la sua eco prodotta nella vita e nella sensibilità dei presenti. Tutti gli adulti, oltre i dodici anni, potevano prendere la parola. Ricordiamo Gesù dodicenne al tempio.
Ritorna in me la domanda sulla qualità dei nostri luoghi di formazione e della libertà di espressione esercitata in essi. C’è anche almeno un altro problema oggi: la tendenza diffusa che fa immaginare di sapere già tutto solo perché si è abili a “messaggiare”. Presunzione di sapienza, solo in forza dell’abilità ad usare velocemente le dita!
L’intervento di Gesù fa stupire i presenti. Si meravigliano per la sapienza della sua parola e per i segni prodigiosi che la accompagnano. Trovo qui un’indicazione preziosa per noi. Gesù ha sempre unito parola e atti, annuncio e segni. Dovremmo essere suoi discepoli anche in questo. Parlare, comunicare, confrontarsi sì; ma solo in vista di mostrare poi con gli atti il buono emerso nel confronto. Non dimentichiamo: Dio crea così il mondo: dice una parola ed essa si realizza. Dobbiamo ricuperare il valore della parola collegata alla vita, la parola riscontrabile nei fatti.
Ma lo stupore dei nazaretani è dovuto soprattutto alla persona di Gesù. Essi si scandalizzano perché Lui, Gesù, il falegname, figlio di Maria e fratello di queste persone ben note, dice e compie queste cose. È evidente qui il rifiuto del principio della incarnazione. Un Dio astratto e lontano ognuno se lo immagina e se lo gestisce (manipola) come meglio crede; un Dio incarnato, invece, lo hai davanti a te e devi inevitabilmente confrontarti con lui.
Gesù parla e compie quei segni essendo falegname e figlio di e fratello di… La sapienza e i gesti che la esprimono non cresce e si sviluppa abbandonando professione e relazioni familiari e sociali, ma piuttosto standoci dentro e rivisitandole in modo nuovo. Così agisce lo Spirito: non crea cose nuove, fa nuove tutte le cose.
La sfida per noi non è scappare dal nostro quotidiano, ma abitarlo in modo nuovo. E cioè cercando e trovando in esso, nella fedeltà professionale, familiare e nella ricchezza relazionale, risposte nuove ai problemi del mondo. Si tratta di abitare il proprio territorio e di viverlo come lo spazio unico e irripetibile in cui io, noi collaboriamo alla costruzione del Regno di Dio. Rendere bello il territorio non solo in forza della sua coltivazione e della sua realizzazione produttiva, ma e soprattutto in forza di una nuova socialità: una rinnovata relazione tra le persone che si conoscano, si riconoscano, e mettendo insieme doni e risorse personali, creino le condizioni di un vero bene comune: dove tutti possano attingere il necessario per vivere e dove ciascuno possa dare le qualità e i doni di cui è portatore. In questo la diversità è ricchezza.
C’è strada da fare, sì; ma importante è avere il tracciato del cammino. Il cammino, la via è Lui: Gesù di Nazareth, con le sue parole di sapienza e con i suoi gesti di vera liberazione.
don Martino Zagonel
Non sei abilitato all'invio del commento.
Effettua il Login per poter inviare un commento