Domenica 17 marzo - II di Quaresima - anno C - seconda settimana del Salterio - colore liturgico viola Gen 15, 5-12. 17-18; Sal 26; Fil 3, 17 - 4, 1; Lc 9, 28-36
Il Signore è mia luce e mia salvezza
La trasfigurazione è stata per i tre apostoli come uno squarcio nella vita ordinaria che ha permesso loro di intravvedere una dimensione diversa. Gesù ha fatto fare loro questa esperienza per rinforzarli nella fiducia in lui. Il fatto è avvenuto in un momento di incertezza. Gesù aveva appena svelato: “Dovrò soffrire molto, sarò condannato a morte, ma il terzo giorno risorgerò”. Questa dichiarazione aveva gettato nella confusione gli apostoli che avevano tutt’altre aspettative riguardo a Gesù. E allora Gesù mostra per un momento a quale meta meravigliosa porta la sua strada per cui non devono avere paura di seguirlo. Alla fine c’è anche la conferma da parte del Padre: “Questi è il figlio mio, l’eletto, ascoltatelo”. Smarrimenti e incertezze sono normali nella vita anche per noi credenti. In particolare oggi abbiamo la sensazione che “il tempo sia sballato”. Si è perso il ritmo giusto della vita. È un continuo correre, affannarsi, agitarsi. Il tempo corre troppo veloce e non ci basta più e questo ci riempie di angoscia e di confusione. Se andiamo a fondo di questa spiacevole sensazione constatiamo che la causa è una generale perdita di direzione della vita. Si passa da una cosa all’altra, senza sosta. Non c’è una “durata” nelle cose che facciamo che le leghi l’una all’altra e dia loro coerenza. L’esperienza che Gesù ha fatto fare ai tre apostoli può offrirci un’indicazione per superare questa situazione. Li porta su un alto monte, fuori dallo scorrere della vita. Anche nella prima lettura Dio porta fuori Abram e gli fa guardare le stelle. Questo ci suggerisce che per prima cosa dobbiamo interrompere il ritmo disordinato. Staccare la spina, come si dice. Ma non basta un qualsiasi stacco. Ci si può fermare senza sapere poi cosa fare e per evitare la noia di un tempo vuoto ci si butta nella baraonda del divertimento banale. Peggio che peggio. Gesù portandoli fuori fa contemplare loro qualcosa di straordinario. Ecco l’esperienza di vita che si è persa: la contemplazione. Fermarsi e nel silenzio guardare le cose sostando su di esse, allora svelano bellezze nuove. Molti tentano di ritrovare l’ordine interiore contemplando la natura e immergendosi in essa. È una pratica utile, ma non è sufficiente. Lasciarsi immergere, “naufragare” direbbe Leopardi, nell’infinito mare del cosmo, ti offre una dolce calma momentanea, ma non ti permette di ritrovare il senso giusto della vita. È necessario fare un altro passo. Non l’annullamento nell’indistinto mondo della natura, ma il contatto con un “Tu” vivo e personale, è questo che ti fa intravvedere la dimensione totale ed eterna della vita. È la preghiera, il dialogo con Dio, la contemplazione adorante ciò che veramente trasfigura tutto e la vita acquista quella pienezza che fa dichiarare a Pietro: “È bello stare qui, fermiamoci per sempre qui”. Ma non è possibile fermarsi. La contemplazione ti fa solo intravvedere la città futura di cui saremo cittadini, come dice Paolo nella seconda lettura. Si deve ritornare alla vita, ma dopo esperienze del genere la vita e il tempo si riordinano. Di più, percepiamo nella fede la presenza del Figlio eletto e prediletto, che ci prende per mano e ci conduce fino al termine intravvisto.
Don Gianpietro Moret