«La stanchezza mi sembra il punto di vista per interpretare la situazione»: sono queste le parole con cui mons. Mario Delpini, arcivescovo di Milano, ha iniziato il suo “discorso alla Città”, tenuto lo scorso 6 dicembre nella basilica di sant’Ambrogio e intitolato “Lasciate riposare la terra”. Il discorso – che merita di essere letto nella sua integralità e che qui non intendiamo assolutamente sunteggiare, vista la sua ricchezza – riconosce, proprio in apertura, il fatto che uno dei sentimenti più diffusi nella nostra società di oggi sia proprio «una sorta di spossatezza, come di chi non ce la fa più e deve continuare ad andare avanti».
L’analisi dell’arcivescovo è in sintonia, almeno in parte, con quella proposta dal 58° Rapporto del Censis che descrive l’Italia come una Nazione che “galleggia”, intrappolata nella “sindrome italiana”, vale a dire in una condizione di medietà – per non dire mediocrità – che la salvaguarda, sì, il Paese da capitomboli disastrosi, ma gli impedisce anche di osare slanci coraggiosi verso l’alto e verso il futuro.
Il Censis, tuttavia, prospetta, in modo piuttosto ripetitivo e senza troppa convinzione, ricette già indicate in passato, che dovrebbero essere perseguite per far uscire l’Italia da questa condizione di sostanziale immobilismo che la attanaglia ormai da anni: ad esempio, delineare delle chiare mete comuni in economia e in politica, ricostituire il tessuto sociale e comunitario...
Il discorso dell’arcivescovo, invece, va oltre la semplice analisi sociologica e suggerisce degli elementi di indubbia novità. Non si limita, cioè, ad elencare i motivi di “stanchezza” che esasperano “la gente, la città e la terra”, ma individua spiragli di speranza e suggerisce ambiti concreti in cui intervenire. Tra questi ricopre un ruolo centrale il prossimo Giubileo, presentato come un’opportunità provvidenziale per offrire (ed offrirsi) un tempo di riposo: per riprendere il fiato, certo, ma anche e soprattutto per aver modo di «interpretare e affrontare la crisi antropologica che travaglia la nostra società». Perché, per far questo, è necessario «un punto di vista più alto, di tipo culturale e spirituale, capace di abbracciare i vari aspetti che sono contemporaneamente in gioco». Il riposo giubilare, quindi, non significa assentarsi dalla storia, ma «raccogliere tutte le energie per evitare di continuare a fare quello che si è sempre fatto e riuscire a sospendere la abituali azioni per ascoltare e cogliere il grido di aiuto che si eleva dalla terra». E questo – sono ancora parole di Delpini – è un “esercizio fortemente attivo”.
Dalla stanchezza della nostra società – registrata dall’arcivescovo Delpini e dal Censis ma, molto probabilmente, anche da ognuno di noi nei diversi ambienti in cui vive, ecclesiali o laicali che possano essere – non si esce affatto con un attivismo sordo e ripetitivo, come spesso siamo portati naturalmente a fare. Se ne esce, invece, prendendo del tempo per sé, sostando, riflettendo, rientrando in sé stessi... Solo così sarà possibile interpretare in modo meno superficiale il momento storico che stiamo vivendo e fare così pensieri e progetti nuovi. Dentro a questa visione delle cose, allora, il Giubileo può essere davvero una grande occasione, non solo di riposo, ma anche di interpretazione e di progettazione. Non lasciamola cadere nel vuoto.
Alessio Magoga