Mentre scriviamo sono in corso dei tentativi di accordo per scongiurare l’attacco finale a Rafah, l’ultimo lembo della Striscia di Gaza che ancora non è stato “setacciato” dalle truppe israeliane. Lì verosimilmente, tra le migliaia di civili palestinesi ammassate alla bell’e meglio, si nascondono gli ultimi terroristi di Hamas, insieme agli ostaggi israeliani rimasti in vita (non si sa quanti siano, forse una trentina...). Praticamente tutto il mondo sta scongiurando questo attacco finale e sta chiedendo ad Israele di evitare un’azione bellica che si rivelerebbe una vera e propria carneficina di civili e aggiungerebbe sangue a sangue. Sono già oltre trentamila, infatti, i morti di parte palestinese dall’inizio del conflitto: un numero enorme che non è stato smentito dalla parte israeliana.
Chiedono il cessate il fuoco – o comunque una più convinta ricerca di un accordo negoziale – l’Onu e diverse nazioni. Tra queste anche l’alleato di ferro dello Stato ebraico, gli Stati Uniti, che, nonostante continuino a sostenere economicamente e militarmente Israele, in più occasioni per bocca di Biden hanno manifestato vivo disappunto per la linea dura (anzi durissima) di Netanyahu.
Chiedono insistentemente il cessate il fuoco i giovani di molte città del mondo occidentale (ne parla Paolo De Stefani nella nostra rubrica “A tutto campo”). Dall’Europa agli Stati Uniti in molte università si tengono manifestazioni in favore di uno stop all’azione bellica israeliana. Si sono spese parole molto dure contro queste iniziative, anche a ragione, a motivo di quella che sembra una conoscenza parziale (se non addirittura “di parte”) del conflitto israelo-palestinese in corso ormai da decenni. Con la conseguente minimizzazione delle responsabilità di Hamas e dell’attacco terroristico (perché di questo si è trattato!) che ha massacrato a sangue freddo oltre un migliaio di ebrei, lo scorso 7 ottobre.
Senza ignorare queste (e altre) giuste osservazioni critiche, va detto tuttavia che la voce di questi giovani deve essere ascoltata, perché la sproporzione della risposta ebraica (trenta palestinesi per ogni israeliano) è fin troppo evidente e deve trovare, quanto prima, una fine. È anche negli interessi di Israele cercare una via d’uscita ad un conflitto che rischia di mettere sempre più in cattiva luce lo Stato ebraico e precludere ogni possibilità di futuro dialogo con le autorità palestinesi (e con gli Stati arabi). Ci auguriamo e preghiamo – come ha ribadito il Papa a Venezia domenica scorsa – che la volontà di pace ed il buon senso prevalgano.
Alessio Magoga