XX domenica del Tempo Ordinario - anno B
Pr 9,1-6, Ef 5,15-20, Gv 6,51-58
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, dice il Signore, rimane in me e io in lui.
“Come può quest’uomo darci la sua carne da mangiare?”. La reazione irritata dei Giudei alle parole di Gesù – “il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” - è ben comprensibile, ma solo se si pensa a un mangiare la carne fisica di un uomo: in tal caso, la cosa sarebbe ributtante e disumana. È chiaro però che Gesù non intende questo e che non si lascia sviare nel suo decisivo annuncio. Lo rende anzi ancora più preciso: quel mangiare e bere è indispensabile per avere “la vita”, quella eterna. Con ciò è evidente che carne e sangue sono la concretezza della sua persona e della sua vita come uomo; che egli intende parlare di una comunione reale di vita con lui, paragonandola addirittura alla sua comunione di vita con il Padre. E come sono visibili il mangiare e il bere stando a tavola, così egli pensa a una comunione non solamente spirituale e invisibile, ma a una anche visibile. Dalla sera dell’ultima cena fino ad oggi, tutto questo ci è dato nel sacramento dell’altare, dove “il mangiare e bere sono soltanto un mezzo per ottenere la comunione personale con Cristo” (R. Schnackenburg) e avere la sua vita in noi.
Qui appare come non mai necessario il dono della fede, il vedere in Gesù non un semplice uomo ma colui che “discende dal cielo”, viene dal Padre e ne condivide la natura divina, pur nell’integralità dell’essere uomo. E nella fede allora si potrà cogliere l’incomprensibile abbassamento di Dio verso l'uomo, l’ultimo traguardo dell’incarnazione, che lo porta a farsi cibo per la nostra fame di vita. Quel pane può essere compreso e accolto come amore, che scaturisce da una fonte fresca e inesauribile, a noi sconosciuta, quella dello Spirito santo. Perché attingessimo ad essa, Gesù ha innalzato a poco a poco il nostro sguardo dalla preoccupazione per la vita fisica, quella che ha bisogno del pane quotidiano, al piano della vita vera, che non ci può essere tolta neppure dalla morte, la vita di Dio: “I vostri padri mangiarono la manna e morirono, ma chi mangia questo pane vivrà in eterno”.
Non si ferma però qui, aggiunge una conseguenza di questo vivere nuovo per noi: “Io lo risusciterò nell’ultimo giorno”. Nell’eucaristia noi riceviamo anche la garanzia della nostra risurrezione corporea. La Chiesa ha custodito questa parola fin dalle sue origini, chiamando l'eucaristia “farmaco di immortalità”: è l’espressione del vescovo Ignazio di Antiochia, che sta andando al martirio, all’inizio del II secolo. Vivere per lui è “la grazia di Cristo, uomo nuovo, che consiste nella fede e nell’amore per lui, nella sua passione e risurrezione, in una concordia indivisa, spezzando l’unico pane al fine di vivere in lui per sempre”. E poco dopo Ireneo di Lione precisava: “I nostri corpi che ricevono l'eucaristia non si possono più corrompere e possiedono la speranza della risurrezione”. Ed è una speranza certa, una attesa non vana: risorgeremo con la nostra carne e quindi nell’intera nostra persona, corpo e anima. La Chiesa può così dire, anche davanti alla morte: “Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta ma trasformata”.
Don Giorgio Maschio