BEATIFICAZIONE LUCIANI: la testimonianza della nipote Lina Petri
Al tempo del Concilio la mamma ci faceva pregare perché «il Signore lo illuminasse»
Alle 11.30 di questa mattina, presso la Sala Stampa della Santa Sede, si svolge la Conferenza Stampa di presentazione della Beatificazione di Papa Giovanni Paolo I (al secolo Albino Luciani), che avrà luogo domenica 4 settembre in Piazza San Pietro.
Ecco l'intervento della nipote di Luciani, Lina Petri.
Mio zio Albino è diventato vescovo quando io avevo due anni. Di quando ero molto piccola ricordo quindi ovviamente poco, ho ben presente però alcune volte che si fermava a casa nostra a Levico, di passaggio per qualche impegno in Trentino. Erano visite improvvise e brevi, ma lasciavano mamma contenta. Io e mio fratello possiamo dire che abbiamo conosciuto in quegli anni lo zio attraverso i racconti della mamma. Ci raccontava della loro infanzia a Canale e in particolare di tanti episodi del duro periodo della guerra e della resistenza. Sono tanti episodi che mi sono rimasti impressi, anche quello che lo zio fece a commento dell’incontro tra Mussolini e Hitler che ebbero a villa Gaggia, tra Feltre e Belluno, nel luglio del 1943. A voce alta davanti altri disse: «Siòn ente man de doi matt. Siamo nelle mani di due pazzi». Nel corso di quegli anni terribili dell’occupazione, dei rastrellamenti, so che lo zio si era adoperato a Belluno anche a nascondere persone in pericolo, ebrei.
Al tempo del Concilio la mamma ci faceva pregare perché «il Signore lo illuminasse». Ogni volta che era a Roma per una sessione, lo zio mandava una cartolina, solo la firma, spesso la frase «un saluto benedicente». Mantenne sempre quest’abitudine, anche negli anni successivi. Ero già grande quando notai che spesso la cartolina era sempre la stessa e raffigurava la basilica di Sant’Antonio in via Merulana: una piccola attenzione verso mia madre che si chiamava Antonia.
Quando avevo 15 anni lo zio mi invitò a trascorrere qualche giorno durante le vacanze di Natale da lui in patriarchio a Venezia. Quei giorni hanno segnato per me l’inizio di un’amicizia. Così, negli anni del liceo e dell’università, dal 1970 al 1978, sono stata tante volte da lui a Venezia. Mi sollecitava ad andare a trovarlo quando volevo. Si informava dei miei problemi, si interessava ai miei studi. Ricordo che all’inizio del liceo mi chiese se mi piaceva di più san Tommaso o sant’Agostino e nel vedermi disorientata in merito, registrava con tristezza un decadimento dell’insegnamento rispetto ai suoi tempi… Mi parlava spesso di sant’Agostino, diceva che lo sentiva più vicino, che per capire le sue opere bisognava conoscere la sua vita e l’esperienza che aveva fatto del peccato e della misericordia di Dio. Quando mi spiegava anche cose profonde diceva i concetti con esempi chiari, come alle udienze generali del mercoledì.
Spesso mi ripeteva che a me lo legava particolarmente l’affetto per mia mamma, che tanto si era sacrificata per lui ed era dovuta emigrare per lavorare. Ma anche lo zio io l’ho sempre conosciuto povero: nel patriarcato di Venezia, al di là degli arredi “storici” non c’era nulla di sfarzoso o di particolare valore. Quando era arrivato a Venezia aveva dovuto arredare le camere degli ospiti, avendo i parenti del patriarca Urbani portato via quello che era proprietà del cardinale. «Voi però – ci diceva – alla mia morte non portate via nulla, anche se sono cose che ho comprato di tasca mia». Anche nel vestire era estremamente sobrio. Succedeva che suor Vincenza qualche volta passasse a mia mamma le sue canottiere di lana, i calzini, le camicie, ormai consunte e rammendate più volte, che poi venivano usate da mio papà, muratore, sul lavoro. Diceva suor Vincenza, la suora che lo ha seguito da Vittorio Veneto a Roma, che era l’unico modo di “far sparire” quella biancheria lisa senza che lo zio reclamasse per continuare ad usarla.
Molte volte andavo a trovarlo da sola. Sempre in quegli anni invitava la mia famiglia (i miei genitori, mio fratello e me) a trascorrere il Natale e la Pasqua con lui. Durante quegli incontri, immancabilmente la mamma esternava tutte le sue preoccupazioni sul brutto momento che si stava vivendo: le proteste del post Sessantotto, il terrorismo, le contestazioni al Papa. E gli diceva: «È tutto un rebaltòn… Albino, sono tanto preoccupata anche per te». Lo zio però si dimostrava sereno, la incoraggiava e le diceva: «Nina stai tranquilla, la Chiesa nei secoli ha superato momenti anche più gravi e difficili perché è il Signore che la guida. Lui c’è sempre». E aggiungeva: «Ciò che è Tradizione nei secoli rimane e ritorna, sempre». Suor Vincenza, mi raccontava che lo zio le diceva: «Le verità della fede le ho imparate da bambino, sono rimaste le stesse, sono sempre le stesse, e non sono cambiate da quando sono diventato prete a ora. Ed è questa Parola di Dio, che è immutabile, che dobbiamo proclamare, non la nostra». Ci diceva di continuare a recitare il Rosario in famiglia, «anche se tutti ora dicono che è una preghiera superata». Ci chiedeva in particolare di pregare per Paolo VI, che soffriva incomprensioni.
In patriarchio ospitava spesso cardinali provenienti da varie parti del mondo. Ricordo un suo scambio di visite con il cardinale Marty di Parigi. Una volta lo zio mi regalò una statuina della Madonna, copia di quella di Notre Dame, avuta in dono dall’arcivescovo di Parigi che era stato da lui il giorno precedente. Aveva ospitato più di una volta a Venezia il cardinale Thiandoum, e mi aveva parlato di quel vescovo africano. Mi diceva che queste visite gli aprivano un orizzonte di più grande respiro. Più di una volta mi disse pure che avrebbe desiderato vivere un’esperienza di missione in Africa e che non gli sarebbe dispiaciuto imitare il cardinal Léger che nel 1968 aveva rinunciato alla sede episcopale di Montréal per servire i lebbrosi in Camerun. Diceva che più avanti pensava di chiederlo anche lui al Papa.
Nell’autunno 1975 passai a salutarlo prima di partire per Roma, matricola all’università e prima che lui partisse per il viaggio in Brasile. Erano i primi giorni di novembre, uno o due giorni dopo l’uccisione di Pier Paolo Pasolini. Gli telefonò il vescovo di Udine, mons. Alfredo Battisti, per chiedere un consiglio sull’opportunità o meno di celebrarne i funerali religiosi. Le circostanze della morte erano scandalose e a me colpì molto come lo zio valutò la situazione: «La sua condotta di vita lasciamola al giudizio del Signore. Tutti noi, nessuno escluso, abbiamo bisogno della Sua misericordia. Le sue opere artistiche però» diceva «parlavano per lui e d’altra parte, in Friuli, da giovane, era stato attaccato alla pratica cristiana, ed era giusto che tornando adesso alla sua terra, la Chiesa lo accogliesse con la sepoltura cristiana». Mi colpì il suo criterio di valutazione che prima di tutto non condannava, ma salvava il buono e mi aveva colpito questa sua spiegazione limpida, da vero pastore.
Lo incontrai un’ultima volta a Venezia la sera del 5 agosto 1978, io di passaggio verso una vacanza con amici universitari e lui appena rientrato in patriarcato da alcuni giorni trascorsi agli Alberoni, dove si recava sempre in estate per un po’ di riposo. Durante la cena gli raccontai della morte per leucemia di un mio amico universitario. Ricordo il suo volto che mi diceva che bisogna stare sempre pronti, perché la morte può venire in qualunque momento: «L’importante l’é sta semper col Signor» mi aveva detto quella sera, che peraltro era una frase abituale con cui mi salutava sempre nel momento in cui andavo via. Verso la fine della cena di quel 5 agosto lo chiamarono al telefono e tornando mi disse di aver avuto notizia che Paolo VI non stava bene.
Rimasi a dormire in patriarcato. Al mattino lo zio mi disse di aver saputo da Roma che era peggiorato. Mi salutò con la raccomandazione di pregare per il Papa. Lo rividi poi nell’udienza ai familiari del 2 settembre e negli incontri ufficiali del giorno dopo. Come semplice fedele ero presente anche alla messa di presa di possesso a San Giovanni in Laterano il 23 settembre. Nel mese di pontificato il comportamento sereno e saggio dello zio era rimasto quello di sempre.
Nell’incontro privato con noi familiari, il 2 settembre, ci rassicurò subito dicendo: «Non ho fatto niente per arrivare fin qui. Quindi state tranquilli voi come sto tranquillo io». Del resto questo è stato sempre il suo atteggiamento in sintonia con il suo stile di vita.
Lo rividi infine disteso nel suo letto dopo la morte. Ricordo la sua camera nell’appartamento papale… da dove ero seduta lo guardavo e davanti a me sulla destra – tra le due finestre ad angolo della stanza – la scrivania… c’erano solo un crocifisso e la fotografia dei suoi genitori, i miei nonni materni, con in braccio mia cugina Pia, la loro prima nipotina.
(sala stampa della Santa Sede)
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