CHIESA: Santo Stefano 2019, una storia di sangue che continua
La riflessione del card. Ravasi sulla festa del primo martire
L’hanno collocato nel calendario subito dopo il Natale che, in verità, non è proprio la festa tutta luci, regali e pranzi a cui siamo abituati, se pensiamo a quella nascita in uno spazio di fortuna, al sanguinario accompagnamento della strage dei neonati di Betlemme, allo “status” di profughi in Egitto della famiglia di Gesù.
Stiamo evocando ovviamente il diacono Stefano e le righe che leggeremo proprio nella liturgia del 26 dicembre, scritte dall’evangelista Luca nella sua seconda opera: “Lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo… Mentre lo lapidavano, Stefano pregava e diceva: Signore Gesù, accogli il mio spirito! Poi piegò le ginocchia e gridò forte: Signore, non imputar loro questo peccato! Detto questo, morì” (Atti 7,58-60). Una morte evidentemente modellata su quella di Cristo che ugualmente aveva perdonato i suoi crocifissori e invocato il Padre perché accogliesse la sua vita e il suo spirito.
Sappiamo anche che la storia di Stefano non appartiene a un passato ormai remoto perché essa si ripete oggi in varie regioni del nostro pianeta, come allora era stata replicata per quella fitta serie di martiri che l’Apocalisse fa sfilare davanti al trono divino e all’Agnello Cristo, “una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua…, avvolti in vesti candide e con rami di palma nelle loro mani” (7,9). Lo scorso 11 dicembre, durante l’udienza del mercoledì, Papa Francesco aveva commentato quell’esperienza radicale così: “Il martirio è l’aria della vita di una comunità cristiana. Sempre ci sono martiri tra noi: è questo il segno che siamo sulla strada di Gesù”.
Vorremmo, allora, proporre una breve storia della persecuzione secondo la Bibbia, partendo proprio dalla stessa voce di Cristo. “Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi” (Matteo 5,10-12). Queste che sono le due ultime “beatitudini” del discorso della Montagna gettano, infatti, un duplice sguardo sulla storia biblica. Si rivolgono innanzitutto al passato quando i profeti erano sottoposti a feroci contestazioni da parte di quel potere che essi sfidavano per affermare verità e giustizia.
Pensiamo, ad esempio, a Elia e all’attacco sistematico che gli riserverà la regina Gezabele per farne tacere la voce. Oppure ad Amos, contestato anche dal sacerdote ufficiale Amasia, o a Geremia la cui vita tormentata sarà evocata autobiograficamente nelle pagine del suo libro denominate come “confessioni”.
Pensiamo al destino dell’ultimo dei profeti, Giovanni Battista, la cui voce fremente (“Non ti è lecito!”) e la cui esistenza sono cancellate dal potere prevaricatore del re Erode Antipa. Lo stesso Stefano da noi citato, prima di suggellare col sangue la sua fede, accuserà il Sinedrio con queste parole veementi: “Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori” (Atti 7,52).
Lo sguardo di Cristo si rivolge, però, anche al futuro suo e nostro, quello della Chiesa. Egli, infatti, nel “discorso missionario” non esiterà a tracciare un ritratto severo e non edulcorato del destino che attende il suo discepolo sia all’interno della sua famiglia sia nella sua comunità nazionale e religiosa. Simili a pecore in mezzo a lupi, i fedeli vedranno attorno a sé ergersi una fredda cortina di odio, di rigetto, di criminalizzazione che li costringerà alla fuga e a portare la croce fino al martirio per la fedeltà al Vangelo (Matteo 10,16-23).
Lunga sarà la lista delle persecuzioni che gli Atti degli apostoli registrano per la comunità cristiana delle origini, i cui capi, gli apostoli, sono spesso trascinati davanti ai tribunali, flagellati, incarcerati e talora anche uccisi.
Significativa sarà la sorte di san Paolo. Lui che era stato persecutore della Chiesa – come spesso confessa nelle sue lettere – diverrà un perseguitato a causa di Cristo, costretto ad appellare alla suprema cassazione imperiale romana ove, però, troverà la sentenza di morte, come ci informa l’antica tradizione.
La fedeltà alla propria fede, alla giustizia e alla coerenza trasforma, quindi, il “testimone” in “martire” (come è noto, quest’ultimo vocabolo greco ha appunto il valore di “testimone”). La figura sulla quale ci si esempla è quella del Martire per eccellenza, Cristo.
La sua esistenza è sottoposta a una pressione continua, la sua opera e la sua parola sono osteggiate, l’approdo ultimo della sua vita è in un processo e in un’esecuzione capitale.
Ma, come il seme che muore nella terra, egli è destinato per questa via a portare frutto di salvezza. È per questo che le aspre persecuzioni dei giusti, descritte dall’Apocalisse a cui sopra accennavamo, hanno come meta la gloria celeste e la vita eterna nella Gerusalemme nuova e perfetta.
Concludiamo con due voci più vicine ai nostri tempi, antitetiche tra loro (l’uno agnostico, l’altro sacerdote appassionato), così come sono apparentemente opposte le loro dichiarazioni, eppure in realtà convergenti. Da un lato, lo scrittore francese Albert Camus, nella raccolta di racconti La caduta (1956), si rivolgeva così ai testimoni autentici: “Martiri, dovete scegliere tra essere dimenticati, scherniti o ridotti a strumenti. Quanto ad essere colpiti: questo mai”. In realtà la comprensione, anzi, la loro necessità è affermata da don Primo Mazzolari anche per la Chiesa di oggi: “Un gruppo di uomini liberi e consapevoli fino al martirio è la novità più rivoluzionaria che il presente possa attendersi”.
card. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura, della Pontificia Commissione di archeologia sacra e del Consiglio di coordinamento fra Accademie pontificie
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