Crisi Ucraina-Russia: imboccato il sentiero di guerra
Cosa succede ora che Putin ha riconosciuto l’indipendenza del Donbass?
Sale ancora la tensione tra Russia e Ucraina. L’ora delle armi sembra scoccata. Bombe, suono delle sirene, civili in fuga, chiamata alle armi, corsi di sopravvivenza: tutti segnali che da guerra a media intensità si stia passando a guerra a tutto campo. Accanto a questi segnali il riconoscimento russo dell’indipendenza della regione Donbass, preludio di un’annessione come avvenuto per la Crimea nel 2014. Questa accelerazione accade mentre la diplomazia europea e americana si muove a corrente alternata tra incontri bilaterali, dichiarazioni pubbliche e enormi interessi economici da salvaguardare.
Mentre a Monaco, con l’assenza dei diplomatici russi, si è tenuta nello scorso fine settimana l’annuale Conferenza sulla sicurezza (ndr forum informale, sviluppato durante la guerra fredda, per discutere di conflitti e problemi di sicurezza) con al centro la crisi ucraina, Mosca si apprestava ad ammassare le truppe al confine.
La partita a scacchi in diretta. Putin lunedì sera ha parlato alla nazione per annunciare il riconoscimento dell’indipendenza delle autoproclamate (filorusse) Repubbliche di Donetsk e Lugansk, nella regione del Donbass. Dopo un lungo excursus storico a partire dalla Rivoluzione del 1917, passando per la Seconda Guerra Mondiale, in cui ha ricordato le origini dell’Unione sovietica e la sua dissoluzione, ha puntato il dito contro l’ingratitudine di Kiev di guardare verso l’Europa seppure rappresenti il cuore della storia russa (ndr la Terra di Rus' rappresenta il più antico Stato organizzato slavo-orientale, sorto verso la fine del IX secolo, del quale Kiev fu a lungo la capitale), Putin ha spiegato di non poter abbandonare al proprio destino i milioni di russi che vivono al confine orientale.
Dopo la mossa di Putin, in attesa delle sanzioni occidentali, si parla dunque già di territorio da ridisegnare e di confini da tracciare. Mosca, come da copione, frena e ostenta aperture alla diplomazia. Il timore dell’Occidente è che Putin non si accontenti del Donbass, ma voglia occupare l’Ucraina fino al fiume Dnepr.
Donbass. Qualunque ipotesi sul futuro prossimo del conflitto non può prescindere dall’analisi del territorio. Di quello che significa il Donbass per i russi, per gli ucraini, ma soprattutto per i suoi abitanti.
Donbass, che significa ‘bacino del Donec’ (ndr , il Donec è un fiume affluente del Don che attraversa quei territori), è una vasta regione dell’Europa orientale, appartenente finora quasi per intero all’Ucraina e per un piccolo tratto alla Russia; comprende parte del bacino del Donec e dello Dnepr e sbocca nel mare di Azov. Sono presenti vasti giacimenti di carbone e ferro, industrie meccaniche e chimiche dai tempi sovietici, oltre ad essere crocevia obbligato di condotte di gas russo verso il centro d’Europa. Il Donbass rappresenta il 10percento della popolazione ucraina e produce circa il 20percento del Pil ucraino.
Anche se Putin nel suo intervento televisivo ha sostenuto che l’Ucraina non è mai stato un vero Stato ma è «parte integrante della storia russa, i cui territori erano parte dell’Impero russo», l’attuale divisione territoriale delle Repubbliche indipendentiste di Donetsk e Luhansk non riflette divisioni culturali, etniche o storiche pre-esistenti, bensì è solo il risultato degli scontri di sette anni fa.
La firma in diretta tv del riconoscimento dell’autonomia di Donetsk e Luhansk ha di fatto costituito il “casus belli” per l’ingresso delle truppe russe nella regione a difesa dei governi filorussi.
Un Paese che scricchiola. Grande due volte l’Italia, l’Ucraina un paese dai lunghi confini rischia ora di perdere altri territori a favore di Mosca dopo l’annessione della Crimea del 2014. La scelta di Mosca è avvenuta mentre l’Europa, tra molti distinguo, si preparava a cercare coesione ad un possibile pacchetto di sanzioni nei confronti della Russia e al contempo stanziava aiuti a Kiev per 1,2 miliardi di euro - sotto forma di prestiti pluriennali - per promuovere la stabilità del Paese. L’Ucraina in questa situazione appare perciò debole di fronte al potente vicino, perché forse quello che sta accadendo è la conferma dello status quo di influenza russa su territori da anni contesi.
Tornare ai confini Nato del 1997 è la richiesta del Cremlino per fermare i piani d’invasione dell’Ucraina. Una richiesta che l’Alleanza atlantica sembra orientata a rispedire al mittente come ha detto pochi giorni fa il segretario generale Jens Stoltenberg: «I Paesi membri della Nato decidono chi entra, non certo Mosca».
Intanto il presidente ucraino Zolodymir Zelenshy chiede a chiare note una durissima reazione internazionale per difendere l’integrità nazionale, ma né i paesi europei né gli Stati Uniti sembrano intenzionati a scendere (per ora) in campo con i propri uomini ma a valutare sanzioni commerciali e finanziarie con Mosca.
La preoccupazione crescente coinvolge sempre più anche i paesi baltici e la Georgia che intravvedono nell’intervento russo una prossima base giuridica per ulteriori aggressioni armate verso i paesi ex sovietici.
Origini e ragioni del conflitto. Per capire le origini della crisi tra Russia e Ucraina bisogna fare un passo indietro almeno fino al 2013, quando scoppiarono violente proteste che presero poi il nome di “Euromaidan” (che letteralmente significa Europiazza in ucraino). Dalla sua indipendenza la nazione ha sempre oscillato tra la vicinanza all’Occidente e quella alla Russia, con la politica che rispecchiava in questo senso una divisione che era forte anche nella popolazione.
L’insurrezione del Donbass, sostenuta da Mosca, è iniziata nel febbraio 2014 e ha fatto già almeno 14mila vittime. Fu allora che in Crimea, penisola nel Mar Nero abitata prevalentemente da russofoni e strategica dal punto di vista geopolitico per la Russia, un gruppo di ribelli, aiutati da gruppi di militari senza insegne nazionali chiamati “omini verdi” per il colore delle loro uniformi (e che con ogni probabilità erano mercenari russi della Wagner ora presenti anche in Libia e nel Sahel), insorse e proclamò l’indipendenza chiedendo l’annessione alla Russia, che Mosca immediatamente riconobbe e che però non fu mai accettata da Kiev e dall’Occidente.
Un’altra insurrezione armata esplose ad aprile 2014 nel cuore industriale orientale del Paese, il Donbas, scatenando una guerra civile ancora in corso nelle province di Donetsk e Lugansk, dove vennero proclamate, a seguito di altri contestati referendum, le omonime Repubbliche popolari che nel nome e nel simbolismo si rifanno alle repubbliche sovietiche.
Il sacrificio dell’Ucraina. All’inizio del 2015 gli accordi di Minsk stabilirono la fine dei combattimenti e il ritorno all’Ucraina delle regioni ribelli, in cambio di più autonomia. Ma benché fossero stati firmati sia dal governo ucraino sia da quello russo, gli accordi non sono mai stati davvero rispettati. Il Donbass si è così trasformato in una zona di guerra, con tanto di trincee e centri abitati abbandonati perché localizzati lungo la linea del fronte. L’invasione della Crimea nei fatti è stata accettata dai paesi occidentali viste le esigue sanzioni comminate a Mosca.
Fino a qualche giorno fa tutte le parti invocavano gli "Accordi di Minsk" come possibile base di partenza per trovare una soluzione diplomatica alla crisi. Con il riconoscimento e l’invio di militari nelle repubbliche separatiste per molte capitali occidentali siamo difronte ad una evidente violazione del diritto internazionale, a cui il diritto di veto russo e cinese esibito impedisce alle Nazioni Unite di intervenire.
Putin martedì ha dichiarato che «gli accordi di Minsk non esistono più avendo Mosca riconosciuto come indipendente un territorio molto più vasto di quello occupato, dal 2014, dalle Repubbliche popolari», mentre il Senato russo ha dato l’autorizzazione per usare le forze armate all’estero
Per il governo di Kiev recuperare il Donbass diventa ora impossibile. Farlo per via militare vorrebbe dire rischiare una guerra con la Russia.
Minsk II: accordo inapplicato. Cerchiamo di capire di che cosa si tratta(va)?
Gli accordi di Minsk sono stati firmati nella capitale bielorussa dopo la crisi che nel 2014 ha portato all'invasione della Crimea da parte della Russia e agli scontri nel Donbass. Negoziati da Ucraina e separatisti filorussi delle regioni orientali, sono stati firmati in due diverse occasioni, nel settembre del 2014 e nel febbraio del 2015, in presenza dei rappresentanti dell’Osce, Russia, Francia e Germania.
Gli Accordi di Minsk II sono basati su 13 punti che, a distanza di 7 anni dalla firma (12 febbraio 2015) sostenuta da Francia, Germania, Russia e Ucraina, restano ampiamente inattuati. Gli unici risultati ottenuti sono stati una alterna riduzione dell’intensità dei combattimenti, mentre le sue disposizioni politiche, mai attuate, sono considerate da Kiev troppo favorevoli a Mosca. Così come lo scambio dei prigionieri tra le parti, l’invio di aiuti umanitari, il ritiro delle armi pesanti e dei mercenari stranieri dalla zona del conflitto, il ripristino del pieno controllo del confine dell’Ucraina da parte del governo di Kiev compreso la riforma costituzionale che preveda il decentramento amministrativo per le regioni russofone.
Con la mossa di lunedì 21 febbraio sono stati probabilmente azzerati 8 anni di diplomazia!
Le mosse dell’Occidente. In questi primi giorni successivi all’ingresso delle truppe russe nei territori dell’Ucraina orientale occupati dai ribelli separatisti, gli Stati Uniti e l’Europa si stanno mostrando esitanti e incerti su come rispondere. Gran parte dell’incertezza dipende da come l’Europa deciderà di quantificare le ritorsioni per le mosse del presidente russo Putin, considerato che gli Stati Uniti non hanno interessi economici diretti nell’area.
A beneficiarne sotto il profilo economico e geo-politico della lunga guerra a media intensità è stata certamente la Russia, a scapito dell’Europa le cui sanzioni comminate in questi anni sono risultate insignificanti. L’Europa è più interessata ai suoi interessi economici che ai principi di autodeterminazione del popolo ucraino. Basti pensare alle cifre dello scambio Ue-Russia che nel 2020 ha rappresentato un terzo del suo commercio totale con il mondo, ma anche ai maggiori costi che la recente escalation ha determinato nel mercato del gas e del petrolio, ma anche dei prezzi del grano e dell’acciaio, a vantaggio della Russia.
Invece di essere punito per aver tenuto con il fiato sospeso mezzo mondo, Putin potrà ora negoziare un trattato che rischia di ristabilire la divisione dell’Europa in sfere di influenze, o almeno di blindare per i prossimi decenni gli Stati ex sovietici (Ucraina, Georgia, Bielorussia, Moldavia) nell’orbita di Mosca.
Le ragioni della Russia. Mosca è naturalmente da sempre interessata a mantenere un’influenza nel Paese i cui confini distano a poco più di 500 km, ma anche da desideri revisionisti di ricostruire la Grande Russia. Si aggiunga inoltre che dopo l’indipendenza ucraina avvenuta nel 1991 le forze di governo che si sono alternate al potere si sono state dimostrate orientate a entrare parte dell’Unione europea. Per Putin le ragioni di questa necessità di influenza sono non soltanto storiche, visto che l’Ucraina è considerata storicamente parte della Russia, ma anche geopolitiche, perché il Cremlino vuole impedire una adesione della Nato che di fatto significherebbe che gran parte del confine occidentale della Russia sarebbe presidiato dall'Alleanza Atlantica (cosa che dall’altra parte agli Usa e all’Occidente farebbe comodo). Dopo il 1997 sono entrate nella Nato Lettonia, Lituania, Estonia, Polonia, Romania e Bulgaria, Putin non può permettere che lo faccia anche Kiev (che ha più volte espresso questa volontà).
Partita ferma o scacco matto? La partita in corso non è solo sul Donbass o sui confini orientali della Nato bensì sulla rinascita strategica di Mosca. E potrebbe innescare conseguenze a catena dai Balcani al Medio Oriente, dal Baltico al Nordafrica.
Al di là degli sforzi diplomatici dei paesi europei per garantire la sovranità e integrità territoriale dell’Ucraina, appare sempre più evidente come, anche questa volta, l’odore dei soldi stia sopraffacendo su quello acre dei mortai e le prove muscolari del Cremlino stiano creando la nuova rotta migratoria orientale di profughi dall’Ucraina.
Enrico Vendrame
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