ESPERIENZE: mani oltre le sbarre
Riflessione di una volontaria che accompagna i carcerati
Tra le testimonianze raccolte nel sussidio della Caritas diocesana per la Giornata mondiale dei Poveri (15 novembre) vi è quella di Rita Antoniazzi, che presta servizio di volontariato in carcere.
Guardie che ti chiedono nome e cognome, chiavi che girano rumorosamente, cancelli che si aprono e si richiudono, uomini che camminano avanti e indietro in corridoio, altri in cella, tanti che quando arrivi se ne accorgono e ti salutano, alcuni si avvicinano. E quando entri tra le loro mura con una certa regolarità ti accorgi che ti stanno aspettando e con sempre più spontaneità ti vengono incontro, ti danno la mano, ti sorridono, ti chiedono come va, cominciano a parlare di sé e delle loro storie. Da quello che ho sperimentato fin qui frequentando il carcere come volontaria intuisco che il semplice fatto di esserci, e di essere lì per loro, gratuitamente e sinceramente, è accolto dai detenuti come una sorta di riconoscimento del loro essere persone, persone che esistono e che hanno una dignità. La dignità dei detenuti è messa a dura prova dalle condizioni in cui vivono, dagli eventi che li hanno portati in carcere, dal giudizio degli altri, dalle storie che hanno alle spalle e il futuro che hanno o non hanno davanti. E’ una dignità che i detenuti vogliono recuperare e che chiedono sia loro riconosciuta. Un appello, questo, che va in qualche modo raccolto sia da quanti entrano a vario titolo in contatto con loro sia dall’intera società. Rifletto sul fatto che il legame tra persona e dignità è inscindibile, che ogni persona in quanto tale ha una sua dignità, ce l’ha dentro, e dunque che la dignità non può essere “data”, come se appartenesse a qualcuno e a qualcun altro no, ma riconosciuta, riaffermata, difesa, restituita. Ed è una restituzione lenta, graduale, impegnativa, che avviene entro relazioni e percorsi che danno spazio alla fiducia, al perdono, alla speranza, alla possibilità di ricominciare. Dai dialoghi avuti con alcuni carcerati ho percepito in loro la difficoltà a pensarsi in maniera positiva, a non identificarsi con il male commesso, a progettare un qualche futuro. Ma mi è accaduto anche di accorgermi che, nel tempo, qualcuno di loro si presentava in modo più curato, che qualcun altro riallacciava spontaneamente il filo della conversazione intrapresa quindici giorni prima, che il dialogo di qualcuno diventava confidenza... Oltre a quanti si accostano alle persone recluse per motivi di lavoro anche chi vi entra come volontario può contribuire a restituire loro dignità, e può farlo perché mosso non solo da buona volontà ma anche dalla consapevolezza di essere parte di una società che molte volte si dimostra disattenta e mancante verso le persone, soprattutto se fragili e vulnerabili. Restituire dignità a qualcuno, ai carcerati e a quanti vivono situazioni di emarginazione o esclusione, è restituirla alla comunità intera e dunque renderla migliore. Apparteniamo all’unica umanità e quando si restituisce all’altro ciò che è suo di diritto non ci si impoverisce, ci si arricchisce.
Rita Antoniazzi Conegliano “Ho iniziato ad entrare nel carcere di Treviso come volontaria circa due anni fa, partecipando alla Liturgia della Parola proposta da alcune persone a domeniche alterne. Successivamente mi sono affiancata ad una donna consacrata che svolge un servizio costante di ascolto dei detenuti. Sono di riferimento a quanti, nell’ambito della Caritas diocesana, intendono avvicinarsi e servire in questo ambito”. ritantoniazzi@gmail.com
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