MONDO: L'Afghanistan tradito - 2
Continua la riflessione di Paolo De Stefani, docente di diritto internazionale all'università di Padova
La ritirata degli occidentali dall’Afghanistan – invero piuttosto sgangherata – era inevitabile. Certo, poteva essere organizzata in modo più dignitoso, ma per il resto è abbastanza in linea con l’atteggiamento di profonda incomprensione e incomunicabilità che la Nato e in particolare gli Usa hanno avuto in questi vent’anni nei riguardi degli afghani. Gli sbeffeggi con cui i talebani vincitori stanno salutando la faticosa e umiliante ritirata degli americani da Kabul sono meritati. Siamo venuti come invasori invincibili, con un programma di radicale riforma di tutto. Ce ne andiamo, cacciati da quelli stessi “studenti” che ci vantavamo di avere annientato.
La discussione in Europea e in America si sta polarizzando ora su due direzioni. Da un lato, c’è la preoccupazione umanitaria: e questo sembra essere il tema prevalente da noi, anche sulla scia della dolorosa scomparsa proprio in questi giorni di Gino Strada, che in Afghanistan aveva avviato un ospedale già nel 2000, prima ancora dell’attacco americano. Ma è un umanitarismo che si presta a mille “distinguo”. Alcuni governi europei hanno già detto che non sosterranno i corridoi umanitari: chi scappa dall’Afghanistan può trovare rifugio nei paesi vicini: Iran, Pakistan, Turchia… Perché mai l’Europa dovrebbe aprire le proprie porte agli afghani? Il fatto che per vent’anni abbiamo detto loro di fidarsi della nostra protezione, vantando la superiorità dei nostri valori su quelli degli estremisti islamici, evidentemente, non conta niente. Ma la misura dei corridoi umanitari è a sua volta molto discutibile dal punto di vista etico. In effetti, sembra che in queste operazioni di salvataggio conti in modo decisivo l’aver lavorato per i contingenti o per le Ong europee o americane. È grazie a questo criterio di “fidelizzazione” che gli afghani ottengono (correndo, è vero, rischi non da poco) il lasciapassare per l’aeroporto di Kabul e quindi la possibilità di imbarcarsi per Paesi sicuri. Chi ha creduto ai nostri valori e magari si è anche esposto per promuoverli, ma non ha avuto l’opportunità di entrare tra il personale a servizio delle nostre organizzazioni, si metta pure in coda: i nostri “clienti” gli passeranno avanti, compresi funzionari governativi da noi formati e stipendiati che non hanno resistito più di quindici minuti alla pressione dei talebani. Il trattamento umanitario, insomma, sembra riguardare più le nostre amministrazioni, aziende e Ong, che gli afghani in quanto tali.
L’altro grande argomento è quello “geopolitico”. Chi prenderà il posto degli occidentali in questo territorio-chiave dello scacchiere asiatico? L’Afghanistan è una specie di chiave di volta dell’edificio continentale, a cavallo tra i versanti turco-iranico, russo, indo-pakistano e cinese del Continente. E poi pare abbia notevoli risorse minerarie, mai sfruttate decentemente. Per conservare la nostra influenza, dovremo venire a patti con Putin (opzione favorita dai tedeschi)? O con la Cina, a sua volta alleata dell’Iran (opzione che non dispiace a vari governi europei)? O riavvicinarci al “simpatico” Erdogan? O riscoprire che l’India è in fondo la più popolosa democrazia del pianeta e quindi nostra partner “naturale”? Vari scenari tra cui l’Europa, soprattutto, si illude di potersi destreggiare. I più catastrofisti vedono nella fuga da Kabul il crollo epocale dell’egemonia americana, priva ormai di credibilità e senza più interesse a fare da “asse del mondo”, ormai soppiantata dall’alleanza degli autocrati di Pechino, Mosca, Istanbul.
In tutte queste analisi, chi sparisce (ma era mai stata presa in considerazione?) è la popolazione afghana. Della quale effettivamente pochi si sono preoccupati in questi decenni. L’esportazione della democrazia si è limitata a far eleggere a presidente qualcuno che parlasse un buon inglese e figurasse bene in fotografia. La subitanea vittoria dei talebani è dovuta anche al fatto che per vent’anni la comunità internazionale ha finanziato politici e militari corrotti.
Forse dovremmo dare più fiducia al popolo afghano, compresa quella parte che sembra voler resistere anche con le armi al ritorno dei talebani e che potrebbe contrastare politicamente il loro strapotere. L’isteria con cui in queste settimane abbiamo riscoperto il dramma dell’Afghanistan è conseguenza della cattiva coscienza di noi europei e del narcisismo degli americani. Tra qualche settimana si spegneranno i riflettori su Kabul, e allora vedremo quali carte gli afghani potranno giocare.
Paolo De Stefani
(foto: Agensir)
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