STORIA LOCALE: le epidemie del passato nel territorio diocesano
La prima risale al 554 d.C.
Le epidemie hanno sempre fatto parte della storia dell’umanità, riapparendo ciclicamente, e anche il territorio della nostra diocesi ne ha vissute diverse. La prima di cui abbiamo notizia è un morbo misterioso che colpì Ceneda nel 554 d.C., portato dai “barbari” Alemanni. Nella stessa epoca, fra il 541 e il 767 d.C.tutto il territorio italiano dovette affrontare varie ondate di quella che è stata chiamata “peste giustinianea”.
Dopo un silenzio di secoli, ecco che nel 1348 la peste nera, arrivata dall’Asia lungo le rotte commerciali, fece la sua comparsa a Venezia, uccidendo in pochi mesi metà della popolazione, e diffondendosi poi nella Terraferma veneta. Questa epidemia e le successive degli anni 1476, 1575-77 e 1630-31 (la nota peste dei Promessi sposi) si dimostrarono particolarmente devastanti anche nelle nostre zone. Soprattutto, la peste divenne per lunghi secoli endemica in Veneto, e fu un nemico silenzioso che si ripresentava all’improvviso, a intervalli variabili, anche se, fortunatamente, non sempre con la stessa virulenza.
Pare, ad esempio, che Ceneda e Serravalle abbiano avuti pochissimi casi durante l’epidemia trecentesca, divenendo anzi luoghi di rifugio dal contagio per i cittadini veneziani. Le cause “scientifiche” del morbo si conobbero molto dopo, ma già dal 1348 si capì la necessità di misure straordinarie a tutela della comunità, come la nomina di specifici funzionari addetti alla Sanità, l’assunzione di medici, la chiusura delle osterie, gli accessi limitati alle città, la segnalazione delle abitazioni infette, la disinfezione degli effetti personali dei malati, la creazione o l’ampliamento di luoghi per il ricovero degli appestati (i Lazzaretti).
In sostanza, fin dal Medioevo i poteri pubblici cercarono di agire per limitare il contagio. Di pari passo si affrontarono i problemi causati dalle epidemie al bilancio pubblico riducendo lo stipendio dei funzionari, cosa che riguardò, fra i primi, anche il podestà veneziano di Serravalle. Con il passare del tempo si aggiunsero ulteriori limitazioni: nel 1630, a Conegliano fu deliberato che anche gli animali domestici (cani, gatti, colombi) dovessero restare “serrati” in casa e nel 1713 venne sospesa la fiera di Godega.
Si introdussero anche le “fedi di sanità”, una sorta di passaporto sanitario che attestava lo stato di salute dei viaggiatori, controllato in appositi “rastrelli” all’ingresso degli abitati. I forestieri erano tenuti sotto stretto controllo ma, salvo tragiche eccezioni, non demonizzati; anzi dopo ogni epidemia si cercò di attrarne, tramite la concessione di agevolazioni fiscali, per recuperare le perdite demografiche e di forza lavoro.
Medicina e farmacopea non riuscirono mai a fornire rimedi efficaci, e l’unico modo per evitare il contagio restò l’isolamento, con tutti i fastidi che ne conseguivano e che, allora come ora, generavano malcontento nella popolazione. Già i medici del tempo spiegavano, però, che la paura della peste da sola predisponeva l’uomo ad ammalarsi.
Laddove la medicina si dimostrava impotente, la fede in Dio e nei Santi rimase per secoli un’ancora di speranza, e se a San Rocco si chiedeva la guarigione, San Sebastiano era invocato per essere preservati dal contagio. Basta osservare il gran numero di chiese, altari, capitelli dedicati a questi santi protettori o alla Madonna della Salute per comprendere quanto fosse viva la speranza di un loro intervento.
La peste non fu l’unico flagello che colpì il territorio vittoriese, visto che nel Seicento e Settecento si manifestò a più riprese il vaiolo, e anche l’Ottocento non fu da meno. Infatti, quel secolo fu funestato da epizoozie, come la peste bovina, e da malattie contagiose, quali la scarlattina e il tifo, ma soprattutto, a partire dal 1835, da ripetute epidemie di colera.
Quella del 1855-57 fu la più dolorosa per la nostra diocesi: nel solo primo anno di contagio, si contarono quasi 1500 vittime e molti bambini rimasero orfani. La malattia, di origine asiatica, si accaniva sull’intestino e non esisteva una cura efficace. In questo frangente il governo austriaco assegnò ai parroci un ruolo centrale nella gestione dell’emergenza, affidandoloro il compito di spiegare alla gente le prescrizioni delle autorità sull’igiene personale, la dieta e le abitudini di vita. Ancora in questa epoca a noi più vicina, era tenuto in gran conto il ricorso a Dio e ai Santi come ci testimoniano, fra tanti altri esempi, il noto ex votoofferto dai Revinesi a san Francesco di Paola con “eterna riconoscenza” per la liberazione dal colera o l’erezione del Tempietto delle Grazie a Soligo per essere stata la parrocchia completamente preservata dal male.
Per venire a tempi più recenti, è rimasta a lungo viva nella memoria l’influenza “Spagnola” degli anni 1918-20, portata dalle truppe statunitensi e ben presto diffusasi ovunque in Europa. La malattia era caratterizzata da febbre molto alta che degenerava velocemente in edema polmonare e si espanse a macchia d’olio in una popolazione già stremata dalla guerra e priva di difese immunitarie. Fu una terribile pandemia che uccise fra i 30 e i 50 milioni di persone, causando più morti della Peste Nera e anche del primo conflitto mondiale. Anche in quell’occasione il Veneto fu toccato dalla malattia prima del resto della nazione; anzi, il contagio partì proprio dalla provincia di Vicenza dove si era verificato il primo caso.
La medicina aveva fatto a quell’epoca notevoli progressi rispetto ai secoli precedenti, e per la “Spagnola” si riuscì a sviluppare un vaccino che era pronto da poco quando, nel marzo del 1919 il comune di Treviso deliberò di metterlo a disposizione dei cittadini; ma oramai l’epidemia era in fase discendente e, praticamente da sola, “come era arrivata, scomparve misteriosamente”.
In questi giorni di isolamento potrebbe essere interessante approfondire tali argomenti attraverso i libri di storia locale, per chi ne ha nella libreria di casa, o grazie a quanto disponibile su internet.
Francesca Girardi
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