Il ricordo di don Luigi Sgargetta
Durante la veglia diocesana di preghiera per i martiri si è ricordato il sacerdote diocesano fidei donum morto 40 anni fa.
Ieri sera, lunedì 24, a Cimetta il vescovo Corrado ha presieduto la veglia diocesana di preghiera per i martiri. Si è fatto memoria, in particolare, di don Luigi Sgargetta, sacerdote diocesano fidei donum morto 40 anni fa. Ecco come lo ha ricordato il direttore dell'Ufficio missionario diocesano don Bruno Daniele.
Don Luigi Sgargetta parte da Cimetta il 14 novembre 1963 insieme a don Giuseppe Zago. Il giorno dopo partono da Milano e il 17 arrivano a Bujumbura, capitale del Burundi, dove ad attenderli c’è don Vittore De Rosso, arrivato l’anno prima. I primi mesi don Luigi li passa prima a Kanyinya e poi a Ngozi, sede della diocesi, dedicandosi allo studio della lingua locale, il Kirundi, e alla conoscenza della realtà e delle sfide pastorali che lo aspettano.
Leggendo le note del suo diario sia ha la chiare percezione che egli matura in tempi brevi ma con determinazione, la scelta di vivere il suo ministero mettendosi a servizio del vescovo locale e vivendo con i preti locali, alle loro dipendenze.
Il 1° maggio 1964 annota nel suo diario: “ Sto convincendomi che il nostro posto di sacerdoti diocesani a servizio della Chiesa del Burundi sia di convivere con gli abbés africani”. Avverte con sofferenza che le relazioni tra missionari europei e preti locali non sono facili. Scrive: “Noi dovremmo dimostrare che è possibile convivere con gli abbés africani”. E aggiunge: “ Bisogna attuare in pieno il cristianesimo che significa libertà, rispetto, collaborazione, fiducia. Il bene che noi possiamo fare con tanta semplicità è immenso fra il clero e davanti ai cristiani”.
“Più sappiamo rinunciare alle nostre esperienze, ai nostri programmi, alle nostre grandezze e più possiamo essere utili per il bene della Chiesa del Burundi”, scrive il 23 giugno 1964.
“Ricevo comunicazione – scrive il 23 luglio 1964 - che rimango come Vicario a Ngozi con l’abbé Burije come curé e il P. Pousard come secondo vicario. Sono contento anche perché attuo il mio programma di cercare il bene della Diocesi di Ngozi mettendomi a disposizione del Vescovo e convivendo con gli abbés Barundi”.
E il 29 luglio, aggiunge: “Per il bene di questa Chiesa africana bisognerebbe che noi ci mettessimo a completa disposizione del Vescovo e, convivendo con il clero indigeno, donare esempio di carità, collaborazione, servizio”. Convinto che i preti FD hanno certamente qualcosa da donare, sottolinea però l’esigenza indispensabile “di comprendere i problemi, di entrare nella mentalità della Chiesa, di adattarci un tantino, di non voler partire con programmi prestabiliti, di non voler imporre la propria mentalità, di non cercare soddisfazioni nei risultati, di servire con semplicità non noi stessi, ma gli altri”.
“È contro la ragione – scrive il 28 settembre – partire dall’Europa per l’Africa con programmi prestabiliti, i problemi e le necessità vanno studiati ed esaminati sul posto. Prima di cercare il proprio bene, dobbiamo cercare il bene degli altri … Qui il nostro posto è servire la Chiesa che è africana”.
L’8 febbraio dell’anno dopo, 1965, scrive a mons. Luciani: “Inviandomi in Africa mi ha offerto la possibilità di vivere in maniera completa il mio sacerdozio”. Teme – gli scrive - che certe modalità di presenza missionaria risentano dello stile colonizzatore e non favoriscano il superamento di una separazione razziale. “Penso – conclude – che dobbiamo dimostrare con i fatti che siamo qui per gli africani e non per noi stessi”. Quando mons. Luciani gli risponde dicendogli che non ha niente da opporre in linea di principio, ma consiglia di procedere con prudenza, annota nel suo diario il 15 marzo: “Se la mia volontà di esercitare il ministero alle dipendenze di sacerdoti africani dovesse incontrare serie opposizioni, preferirei rientrare in Diocesi di Vittorio Veneto”.
Dal 16 agosto al 2 settembre 1966, mons. Luciani vista i nostri missionari in Burundi. Il 1° settembre, alla vigilia del rientro di Luciani in Italia, d. Luigi annota nel suo diario: “…Mons. Luciani… ha dimostrato di comprendere la mia volontà di aiutare gli abbés barundi e di vivere con loro e ha dichiarato di rispettare la mia libertà”. E il 4 dicembre dello stesso anno annota: “Ho letto la lettera pastorale di Mons. Luciani riguardante la sua visita nel Burundi. Una frase mi riguarda: «La vita di d. Luigi a Kisanze è una bella testimonianza di amore all’Africa». Deo gratias!” è il suo commento.
Quando mons. Luciani arriva in Burundi, don Luigi aveva lasciato Ngozi ed era stato trasferito a Kisanze, come 3° vicario, ai primi di luglio del 1965. Il suo parroco era l’abbé Salvator e come confratello vicario aveva l’abbé Kizito, due preti barundi. Il 12 luglio dello stesso anno, dopo una riunione diocesana organizzata per migliorare le relazioni tra il clero: abbés Barundi, padri Bianchi e sacerdoti FD, aveva annotato nel suo diario: “Ancora una volta ho capito che il nostro posto come sacerdoti “Fidei donum” è quello di mettersi a servizio della chiesa africana vivendo con i sacerdoti neri e alle loro dipendenze”.
L’insistenza con cui d. Luigi ritorna su questa scelta e la determinazione con cui la difende non sono sempre comprese e condivise. Don Luigi ne parla con sobrietà e con sofferenza in alcune pagine del suo diario (cfr 9 agosto 1967).
In più occasioni riconosce che neanche per lui è facile vivere con coerenza questa scelta. Avverte che, a volte, gli mancano pazienza e comprensione “di una mentalità e di un modo di vivere – scrive – che non sono secondo i nostri criteri” (13 febbraio 1967). Un giorno confessa: “Ancora una volta ho constatato che devo controllarmi di più specialmente per quanto riguarda la mentalità. Devo saper apprezzare i Barundi come sono” (23 aprile 1967). In un’altra occasione si accusa per non aver accolto un invito a condividere la gioia per la nascita e il battesimo di un bambino. “Le mie condizioni e la mia mentalità – scrive - non giustificano minimamente simili atteggiamenti che sono anche poco cristiani perché poco caritatevoli. Rendere felici gli altri partecipando alla loro felicità è nel costume dei Barundi e io devo accettarlo e viverlo. Pazienza, disponibilità, animo sensibile: un unico impegno” (1° aprile 1968).
Accogliendo l’invito dai un padre saveriano di Parma accetta di scrivere qualcosa in merito alla sua esperienza di prete Fidei donum nel 10° anniversario dell’enciclica Fidei donum di Pio XII: “L’idea di rendermi disponibile al mio vescovo per le missioni si è maturata in me verso la fine del 1962. Oltre le necessità della mia diocesi, fornita di personale, il Concilio mi ha aiutato a rendermi conto delle necessità della Chiesa. Sono qui nel Burundi perché mandato dal mio Vescovo; la mia richiesta era stata per l’America Latina. Purtroppo sono partito per l’Africa senza alcuna preparazione pastorale e linguistica. Dopo tre anni e mezzo il Kirundi e la comprensione dell’animo dei Barundi sono ancora per me le difficoltà principali. Sono contento della esperienza africana; è stata per me un arricchimento sacerdotale, spirituale e umano. In terra di missione più facilmente ci si sente ‘preti per la Chiesa’ e ‘a servizio della Chiesa’. Dopo aver esaminato la situazione locale ho scelto di esercitare il mio ministero sacerdotale nelle comunità dei sacerdoti africani e a completa disposizione del vescovo di Ngozi. Ci sono problemi di ordine umano, sociale, razziale, pastorale ed ecclesiastico, che anche noi, missionari dell’ultima ora, dovremmo cercare di risolvere portando un nostro, sia pure modesto, contributo. Anche di questa esperienza sono contento e non manco di ringraziare il Signore. Personalmente non penserei di ‘ritornare in diocesi’. Sono convinto però che la nostra attitudine debba essere sempre di ‘disponibilità al Vescovo’ “ (25 maggio 1967).
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