“Comunicare è una cosa divina”: è solo una delle frasi ad effetto che Papa Francesco ha pronunciato nel recente Giubileo della comunicazione che si è tenuto domenica scorsa a Roma. Teologicamente perfetta, l’espressione del Pontefice, proferita a braccio dopo che aveva rinunciato a leggere il lungo discorso di “nove pagine”, è un invito a riflettere sullo stato di salute del mondo della comunicazione oggi e sulle responsabilità di quanti vi operano. È davvero, oggi, la comunicazione una “cosa divina”? Non rischia talvolta di essere una “cosa diabolica” nel senso letterale del termine, cioè qualcosa che confonde e divide?
Da qui, l’altro interrogativo spiazzante che il Papa ha rivolto ai giornalisti: “Ma tu sei vero? Nel tuo interiore, nella tua vita, sei vero?”. Per chi si occupa di informazione non basta “dire cose vere”, ma è necessario vigilare sempre su di sé, sulla propria autenticità e sulle intenzioni che muovono il proprio lavoro… Per non cadere nel rischio di offrire una comunicazione che, anziché “costruire la società e la Chiesa”, invece demolisca e distrugga. Purtroppo, demolire e distruggere – nel breve termine – sembra più efficace e più remunerativo nel mondo dell’informazione (e non solo in quello).
È possibile una comunicazione diversa, veramente “divina”, che non sia semplicemente dettata dalle regole del mercato e dalla legge del più potente? Parrebbe di sì, anche se ha dei costi molto alti. Lo testimoniano i 120 giornalisti uccisi nel corso del 2024 e gli oltre 500 che sono stati messi in carcere. E per “cambiare la storia” e cercare una comunicazione che sia davvero liberata e liberante, anche papa Francesco, nel famoso discorso di “nove pagine”, ha dato delle indicazioni concrete.
Innanzi tutto, ha rivolto a tutti (anche ai giornalisti) l’appello alla “liberazione della forza interiore del cuore”: “Di ogni cuore! Raccogliere l’appello non spetta ad altri che a noi!”. Bisogna liberarsi da tutto ciò che lo corrompe: ad esempio – sono ancora parole del Papa – “espellere quella putrefazione cerebrale causata dalla dipendenza dal continuo scrolling (scorrimento) sui social media”. Parole molto forti che stigmatizzano un’abitudine diffusa sia nei giovani sia negli adulti, che consumano banalmente il proprio tempo chini sui propri cellulari, sbirciando senza posa da un sito all’altro, da un post all’altro, “addormentando le proprie menti”.
Un altro appello lanciato dal Papa (questo, sì, rivolto principalmente ai comunicatori) è quello di raccontare “storie”, cioè racconti di esperienze di vita vissuta, e soprattutto “storie di speranza, storie che nutrono la vita”. Negli anni si è sviluppato – giustamente – un coraggioso giornalismo di denuncia, che svela e svergogna le ingiustizie presenti nella società. Oggi questa modalità di giornalismo appare insufficiente o inefficace, se non altro per una certa assuefazione che porta all’indifferenza. Il Papa propone una forma nuova di giornalismo che non intende semplicemente raccontare le “cose belle” ma fa intravedere, pur narrando quello che non funziona, le possibilità di bene: “Quando raccontate il male, lasciate spazio alla possibilità di ricucire ciò che è strappato, al dinamismo di bene che può riparare ciò che è rotto”. È il cosiddetto giornalismo costruttivo o “solutions journalism”, che non si ferma solo alla denuncia ma cerca anche le soluzioni.
Appelli oggettivamente interessanti, quelli di papa Francesco: perché non provare ad accoglierli?