La guerra a Gaza nella seconda fase
Le operazioni militari in corso e l’allargamento del conflitto fanno rivivere i ricordi dei massacri di Sabra e Shatila in Libano
Dopo quasi un mese dall'attacco a sorpresa di Hamas del 7 ottobre, Israele ha ulteriormente rafforzato il suo assedio soffocante su Gaza tagliando le forniture di carburante, acqua e cibo. Mancano i collegamenti internet e telefonici. Pressoché inesistenti reportage da ciò che avviene nella Striscia, se non alcune immagini di distruzione. Sembra confermarsi come strategia militare quella di far mancare le prove video di quanto sta avvenendo in territorio palestinese rispetto a possibili contestazioni di crimini commessi.
Quello che appare indubbio è che dove prima c’erano palazzi rimangono solo macerie. Il bilancio delle vittime è difficile da farsi e così le madri hanno cominciato a tatuare il nome sulle braccia dei figli per poterli riconoscere poi in caso di bombardamenti. Intanto sono presi d’assalto i pochi aiuti umanitari che arrivano alla popolazione dal valico egiziano di Rafah. La situazione umanitaria a Gaza è drammatica come hanno dichiarato le Nazioni Unite. Per soddisfare i bisogni crescenti, servirebbe che, ogni giorno, almeno 40 camion del WFP (programma Onu) entrino a Gaza.
Riposizionamenti politici. La guerra tra Hamas e Israele è entrata in una nuova fase sia per l’inasprirsi dei bombardamenti e degli attacchi, che per gli schieramenti geopolitici che vanno formandosi anche a seguito dell’intervento congiunto terra-mare-cielo di Israele sulla Striscia di Gaza a partire dalla notte del 27 ottobre. Non una semplice incursione perché alcuni mezzi e forze speciali sono entrate per restare a lungo! Per il New York Times, infatti, la presenza dei militari israeliani nella Striscia rappresenta l’inizio di un'invasione di Gaza. Una invasione non annunciata… ma de facto avviata.
L’attacco di Hamas non ha cambiato solo il corso del conflitto israelo-palestinese, ma anche le dinamiche dell’intero Medio Oriente. Ha lasciato nel caos la strategia statunitense di allentamento della tensione nella regione, ha messo i governi arabi e l’Iran in una posizione difficile e ha aperto la porta a un maggiore coinvolgimento cinese e russo.
Cortei a favore dei palestinesi e contro Israele riempiono strade e piazze di molti paesi arabi: da Istanbul ad Amman, da Teheran a Jakarta, da Mostar a Tunisi.
Coinvolgimento americano. Gli attacchi hanno anche costretto gli Stati Uniti a invertire la loro politica di riduzione della presenza militare nella regione, ordinando il più grande rafforzamento militare dai tempi della guerra contro l’Isis.
La dura risposta di Netanyahu all’attacco di Hamas ha posto bruscamente fine al processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita, ostacolando la conclusione di un accordo per la sicurezza regionale.
Gli sviluppi della scorsa settimana dimostrano che questo accordo non ha resistito. Da un lato gruppi armati filo-iraniani in Siria e Iraq hanno lanciato attacchi contro basi militari statunitensi, manifestazioni antiamericane in diversi paesi arabi. Dall’altra missili americani hanno colpito in Siria postazioni di militanti sostenuti dall’iran e l’attacco del 27 ottobre è stato reso possibile con il supporto di decine di aerei presenti nella portaerei americana schierata nel Mediterraneo orientale.
Calcolo russo e cinese. Il coinvolgimento degli Stati Uniti in un altro conflitto in Medio Oriente e l’indebolimento delle sue alleanze con gli stati arabi porterebbero ad uno sviluppo positivo per Mosca e Pechino.
Entrambi i Paesi hanno beneficiato degli interventi armati di Washington nella regione negli ultimi due decenni. La “guerra al terrorismo”, l’intervento armato in Afghanistan, Iraq e Siria, hanno danneggiato la posizione degli Stati Uniti nella regione, incoraggiando una percezione positiva della Russia e della Cina tra le nazioni musulmane.
Un rafforzamento militare statunitense in Medio Oriente, maggiori aiuti all’esercito israeliano e un corpo diplomatico statunitense focalizzato sul sostegno a Israele potrebbero portare a minori risorse militari, finanziarie e diplomatiche disponibili per aiutare lo sforzo bellico in Ucraina, ad un ridotto interesse per altre situazioni di crisi (Libia, Sudan e Niger in primis) e un minor sostegno degli alleati in Asia che stanno cercando di resistere alle pressioni cinesi.
Il gioco turco delle due carte. Hamas per il presidente turco Erdogan non è un’organizzazione terroristica e Israele è un’occupante del territorio palestinese. Dentro alla Nato e accreditata a livello internazionale come mediatore nel conflitto russo-ucraino, la Turchia è legata a doppio filo con Hamas per la comune appartenenza sia all’islamismo politico sunnita sia con il partito al governo Partito Giustizia e Sviluppo (AKP) al movimento dei Fratelli Musulmani.
Negli ultimi anni la politica estera sempre più assertiva della Turchia si è fatta sentire in tutti i paesi vicini. In effetti, oggi la politica estera turca spazia dai Balcani occidentali e dal Caucaso al Golfo e fino al Corno d’Africa. Ciò ha portato alcuni analisti a percepire le politiche turche come ambizioni “neo-ottomane” di egemonia regionale.
Punti di vista diversi di una stessa carneficina. Se per gli israeliani il numero dei morti è stato numericamente maggiore dopo gli eventi tragici del nazismo, per i palestinesi il numero dei morti fa tornare in mente la carneficina del settembre 1992 a Sabra e Shatila, due quartieri della capitale libanese Beirut che ospitavano (ma ospitano tuttora) un campo profughi palestinese.
Se dell’olocausto degli ebrei molto sappiamo e ci viene ricordato in questi giorni, per dovere di cronaca dobbiamo ricordare come il massacro di Sabra e Shatila sia considerato uno degli episodi più strazianti di violenza contro i rifugiati palestinesi da quando furono espulsi dalla loro patria durante la creazione di Israele nel 1948, tanto che nel dicembre 1982 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite lo dichiarò come un “atto di genocidio”. Massacro che sta alla base anche della presenza di militari italiani in territorio libanese!
E intanto le chiusure ordinate da Israele e gli attacchi dei coloni nella Cisgiordania hanno un impatto devastante sull’economia palestinese, lasciando i tre milioni di palestinesi residenti in uno stato di paralisi e di stallo economico.
Enrico Vendrame
(Foto AFP/SIR)
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