La vicinanza alla vita della gente priorità della Chiesa francese
Intervista a don Ferruccio Sant, prete a Parigi.
Insieme a due preti francesi, don Ferruccio Sant è in servizio presso il “settore pastorale” di Tremblay, diocesi di Seine-Saint Denis nella periferia di Parigi: quattro parrocchie, per un totale di circa 35.000 abitanti. Dal mese di aprile, i vescovi francesi gli hanno chiesto anche di divenire il coordinatore delle missioni cattoliche italiane di Francia.
Quale è l’obiettivo di questo tuo nuovo incarico? “Dovrò coordinare il lavoro pastorale delle singole missioni a livello di zone pastorali e a livello nazionale. Collaborerò con religiose e preti italiani e con alcuni preti francesi, sensibili alla pastorale migratoria, che accompagnano le missioni italiane (una quindicina in tutto). Oggi ai preti delle missioni è chiesto di non occuparsi solo degli italiani ma di inserirsi anche in un settore pastorale così da far crescere la comunione tra italiani e francesi. La finalità quindi è l’integrazione delle comunità italiane con la vita della chiesa locale francese. Le missioni italiane sono una ricchezza, perché portano alla chiesa locale la propria specificità, ma al contempo accolgono le particolarità delle comunità francesi. In questo collaborare, insomma, c’è un dare e un ricevere”.
Il prossimo anno, la diocesi di Vittorio Veneto approfondirà la Evangelii Gaudium. Quali aspetti possono accomunare la tua esperienza con questo cammino? “Il progetto pastorale della diocesi di Saint Denis, appena 30 pagine, molto snello e accattivante, ha come primo punto la proximité - la vicinanza - alla vita della gente: una chiesa che non sta in sacrestia ma va verso le persone e ne coglie la realtà. Ad esempio, con il sindaco, di sinistra, abbiamo un dialogo molto franco e si collabora bene. Da noi c’è anche una grande moschea di circa 1.500 posti: anche con l’imam – un moderato – c’è un buon rapporto. Ebbene, proprio in questa realtà politica e multireligiosa siamo invitati ad essere vicini alla gente. Il vescovo francese ci incoraggia a incontrare le persone nei condomini, anche solo 2-3 famiglie alla volta. C’è il problema del terrorismo e la gente ha paura di uscire. La vita qui è uno stress continuo. Molti lavorano all’aeroporto o negli ospedali di Parigi e vanno al lavoro in metrò alla mattina presto. La vita è tesa perché si vive sempre con la paura che capiti qualcosa, soprattutto nelle grandi stazioni dove passano migliaia di persone. La vicinanza, allora, si vive andando verso la gente, cercando di essere segno di una chiesa in uscita”.
Altri esempi concreti di una chiesa in uscita? “La frequenza a messa qui è circa dell’1,5 per cento: l’assemblea che partecipa alle celebrazioni è costituita da tante nazionalità e ogni domenica sembra una ‘messa dei popoli’. Tuttavia si respira un senso di unità e di comunione nella diversità dei Paesi di origine. Nelle celebrazioni il sacerdote accoglie e saluta i fedeli alle porte della chiesa. E, per il gesto della pace, scende dal presbiterio e va tra i fedeli…”.
In una società molto secolarizzata come quella francese, immagino che il prete rischi di essere un ‘numero’. Come coltivi la tua spiritualità? “Pensa che non è tanto facile incontrare un parrocchiano nella vita di tutti i giorni. Devi fare esercizio di umiltà e devi avere una fede molto forte. Una cosa bella che ho imparato è vedere i piccoli segni della presenza del Signore: anche nelle persone di altre nazionalità o fedi. Ce ne sono tanti! Penso agli incontri in metrò o sui treni… Mi stupisce scoprire che lo Spirito lavori già e sia presente. Papa Francesco dice che a volte guardiamo alle periferie come a un mondo povero e violento. E invece è proprio lì che si costruisce la bellezza dello stare insieme. Alla sera elenco i piccoli segni della giornata: un impiegato che mi sorride; una persona che mi saluta o che si ferma ad ascoltarmi se gli chiedo un’informazione; un giovane che guarda negli occhi e parla con uno dei tanti questuanti… Per me questi piccoli segni sono i più belli e credo anche i più grandi davanti al Signore”.
Quali sono gli altri punti del piano pastorale della diocesi di Saint Denis? “Il secondo punto riguarda i giovani. Il 22 per cento della popolazione della diocesi di Saint Denis ha meno di 15 anni e il 43 per cento ne ha meno di 30. Ci sono tantissimi giovani, di cui la maggior parte è di ‘cultura mussulmana’. Ci sono complessivamente 130 nazionalità e il 50 per cento della popolazione cambia completamente nell’arco di dieci anni. La disoccupazione è al 18 per cento: molto alta! Disoccupazione, violenza e fondamentalismo sono il grosso problema della periferia delle grandi città francesi. Inoltre, vi è una forte concentrazione di popolazione: la diocesi di Saint Denis è estesa poco meno della diocesi di Vittorio Veneto ma ha circa 1.600.000 abitanti. Per questo investono molto sulla pastorale dei giovani. Nei pellegrinaggi, ritiri, cammini per giovani il vescovo ha notato ultimamente un aumento di partecipazione”.
E il terzo punto del piano pastorale? “Comunione e unità: la chiesa che vive la realtà della gente è chiamata a creare dei piccoli passi di incontro, di scambio, di riflessione fatta assieme. La chiesa partecipa alla vita del quartiere. Ad esempio: la vicesindaco è cattolica e fa parte dell’équipe pastorale. Come detto prima, c’è anche collaborazione con l’islam. Ormai la presenza delle moschee non pone più problemi, purché gli imam seguano le leggi vigenti. I problemi nascono dal fondamentalismo, che prolifera a causa della disoccupazione, della violenza, dei traffici di droga. C’è anche una prigione con circa 1.000 detenuti: il fondamentalismo nasce soprattutto lì, tra i giovani che si sentono messi da parte, trascurati e senza lavoro. Possono essere ‘violentati’ con prospettive illusorie. L’imam della prigione – che conosco personalmente – è un moderato e dice di dover stare attento che questi giovani non si lascino portar via dai fondamentalisti. Lavorare per l’unità è anche questo: collaborare insieme con l’islam e con le altre religioni presenti sul territorio”.
E la comunione nella chiesa? “È difficile! In diocesi siamo circa 100 preti. Dopo 8 anni, lo scorso 26 giugno è stato finalmente ordinato un nuovo prete diocesano. C’è la presenza di molti religiosi che provengono da altre Nazioni. I rapporti complessivamente sono buoni, ma bisogna tener conto delle diverse culture, delle sensibilità delle singole congregazioni religiose e della loro mobilità: ogni anno circa 10 preti su 100 se ne vanno e ne arrivano altrettanti. Ci sono dei bei segni, però, di comunione. Ad esempio, la diocesi di Parigi ha un clero numeroso e diversi preti da lì chiedono di andare in periferia: la chiamano “fraternità pastorale”. Inoltre, il cardinale di Parigi ogni anno raccoglie dei fondi – i cantieri del cardinale – e i soldi vengono distribuiti alle diocesi periferiche che hanno più bisogno. È un bell’esempio di collaborazione tra diocesi”.
Ci sono degli altri aspetti belli dell’esperienza che sta facendo? “Un aspetto molto bello è il catecumenato degli adulti. Vengono a chiedere il battesimo uomini e donne provenienti dalle realtà e dalle nazionalità più disparate. Sono molto motivati e accettano di fare dei percorsi di formazione anche se devono fare dei grossi sacrifici a causa degli spostamenti richiesti e degli orari di lavoro. Un’altra cosa molto bella è il rapporto con il vescovo di Saint Denis: vicepresidente della Conferenza episcopale francese, dà del tu ai suoi preti, ne conosce le difficoltà e sa che fanno quello che possono. Questo rapporto molto umano e semplice favorisce davvero la comunione”.
Alessio Magoga
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