Primavere arabe, dieci anni dopo
La Libia tenta di voltare pagina dopo la nomina nei giorni scorsi di un governo di transizione, mentre in Tunisia si dibatte tra modernità e fondamentalismo religioso. Intervista alla professoressa Michela Mercuri
Le stagioni non sono più le stesse, e nemmeno le primavere ad altre latitudini.
Era il 15 febbraio 2011 quando scoppiarono le proteste di piazza a Bengasi, capitale della Cirenaica, aprendo un nuovo e non del tutto inatteso fronte nei moti di protesta nel nord dell’Africa e nel mondo arabo. Tutto comincia quando i parenti di alcune persone uccise anni prima in una prigione scendono in strada manifestando contro il governo, che aveva da poco arrestato il loro avvocato, Fathi Terbil, noto oppositore di Gheddafi. La polizia disperde i 2mila manifestanti usando gas lacrimogeni e getti d’acqua bollente. Nella repressione muoiono 4 persone, 14 restano ferite. Da lì a qualche mese, con le interferenze di agende esterne (occidentali e arabe), si avrà la caduta del presidente-dittatore Muhammar Gheddafi, senza che il Paese riuscisse a realizzare una transizione democratica. Da allora continua una lunga ed estenuante guerra civile e per la dura legge di Murphy, applicata (e parafrasata) alla politica, chi è rimasto sostiene che "si stava meglio sotto il regime di Gheddafi che oggi in balia dei mercenari turchi e russi ". La primavera si è presto così trasformata in un lungo inverno di guerra civile.
Mosca e Ankara stanno costruendo fortezze irte di radar e missili per colonizzare il Paese, dopo che la Nato e Parigi che avevano sostenuto 10 anni fa le proteste di piazza hanno da tempo abbandonato il campo. La questione libica resta calda sull'agenda internazionale del nuovo governo Draghi e in questi giorni sono in corso a Roma incontri ad alto livello per dare appoggio al neo-costituito governo di transizione.
Così come in Libia, anche nelle altre piazze la grande mobilitazione e l’ondata di entusiasmo sono finite da tempo con alterne ‘fortune’. Quelle fiamme di protesta scossero il mondo arabo portando alla caduta di governi molto longevi quali quelli di Ben Ali in Tunisia, Mubarack in Egitto, Saleh in Yemen ma innescando le guerre civili in Siria e in Yemen ancora in corso.
Le rivolte arabe non sono state tutte uguali, ognuna si è svolta con dinamiche ed esiti differenti: per quelle in Tunisia ed Egitto si è trattato di autentiche sollevazioni popolari di massa, per quelle libica e siriana è diverso, e gli effetti di quegli eventi saranno duraturi. C'è un processo in divenire che ha avuto battute d'arresto, come l'Egitto di al-Sisi che si configura più spietato e pericoloso di quello di Mubarak, ma anche spinte di apertura come la Tunisia e l’Algeria. C'è una Siria dove Assad per ora ha vinto, ma sono rimaste le macerie fumanti e sarà difficile uscirne, e una Libia che ricorda l'Afghanistan dei signori della guerra: un paese spezzato tra Tripoli e Bengasi ancora armate l'una contro l'altra.
Per capire che ne è oggi dell’esperienza delle cosiddette “Primavere arabe” abbiamo posto alcune domande alla professoressa Michela Mercuri (nella foto), docente universitaria e autrice del libro “La primavera araba .Origini ed effetti delle rivolte che stanno cambiando il Medio Oriente”.
Probabilmente ha mille ragioni l’egiziano Ala al-Aswani, tra i più interessanti scrittori mediorientali contemporanei, quando ripete che «il frutto delle primavere arabe deve essere ancora raccolto». Gli entusiasmi iniziali si arenarono in difficoltà immense e i giovani sempre di più hanno cercato di emigrare. Qual è l’eredita per le nuove generazioni di adulti arabi di quei mesi di 10 anni fa che cambiarono il Medio Oriente?
"Anche se, al momento, nessuna delle rivolte arabe ha dato i frutti sperati, il muro del silenzio e della paura è stato abbattuto. Al suo posto non è stato, però, ancora costruito un edificio solido.
Le rivolte arabe hanno insegnato che i progetti rivoluzionari hanno bisogno di una struttura partitica che li sostenga e li diriga e questo è mancato ai giovani scesi in piazza nel 2011. In questa assenza hanno trovato spazio i partiti maggiormente organizzati, come i Fratelli Musulmani in Egitto, che però non sono stati in grado di rappresentare le istanze delle piazze, con le conseguenze che ben conosciamo.
Detta in altri termini, la caduta di un autocrate non è sufficiente a realizzare il cambiamento, ma è necessario, in senso metaforico, “portare la piazza in parlamento”. Se questa lezione sarà appresa dai ragazzi che stanno di nuovo scendendo in piazza in molti paesi della regione dall’Algeria, alla Tunisia, allora forse potremmo dire che “il frutto delle primavere arabe deve essere ancora raccolto” e il nuovo edificio potrà essere costruito su basi solide".
Le speranze dei giovani per un cambiamento e le aspirazioni a maggiori libertà, alla base delle proteste nel 2010-11, hanno lasciato ben presto posto al peso imprescindibile dei clan tribali, delle oligarchie militari e soprattutto della religione, l’islam, in tutte le sue sfaccettature sociali e politiche. Guardando a questi dieci anni, non si può certo dire che la regione mediorientale e nordafricana sia più “libera” e “democratica”, ma non si può nemmeno dire che sia più “stabile”.
"Se dieci anni fa i principali problemi per molti paesi arabi erano, per riprendere le parole dei manifestanti del 2011, “dignità, lavoro, libertà”, oggi è anche la stabilità interna a essere una delle piaghe che stanno mettendo in crisi molti Stati della regione. Tra le pieghe dell’instabilità germoglia il terreno fertile per la criminalità organizzata e i gruppi terroristici e per la creazione di forze localistiche, come i gruppi armati di miliziani in Libia, che hanno reso fin qui impossibile qualunque tentativo di stabilizzazione del quadro interno. E’ innegabile che il post-rivolte abbia portato con sé, centinaia di migliaia di morti, milioni di sfollati, guerre civili fomentate da guerre per procura di attori esterni e terrorismo diffuso. Sullo sfondo l’aggravarsi della situazione economica rappresenta un’ulteriore spinta, soprattutto per i giovani, verso la criminalità organizzata e l’attrazione verso gruppi jihadisti. Solo spezzando questo “circolo vizioso” sarà possibile sperare in una maggiore stabilità".
Dopo la vittoria nelle piazze in Tunisia e in Egitto, la rivolta si è trasformata in guerra civile in Libia o si è arenata di fronte alla capacità di resistenza dei regimi (Siria, Yemen). Se in origine prevalsero i tratti comuni, con il passar degli anni sono emerse radicali differenze tra paese e paese e sono entrati in gioco (e usciti) molti altri attori: Nato, Europa, Stati Uniti, Turchia. Quanto pesano oggi gli attori esterni nella pacificazione della Regione?
"Le rivolte si sono trasformate ben presto in guerre per procura tra attori esterni interessati al perseguimento dei propri interessi nazionali: armi, petrolio e proiezione geostrategica. La Libia è un caso emblematico. La guerra contro Gheddafi, avallata dalla Nato, è stata voluta dalla Francia per impossessarsi delle risorse del Paese. Nel tempo, però, il disimpegno americano ha lasciato il campo ad altre potenze, specie ai cosiddetti “attori regionali”. Gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e l’Egitto sono diventati attori indispensabili nel ridisegnare lo status quo interno. Ma gli spazi vuoti lasciati dagli Usa e da alcuni paesi europei sono stati riempiti da altre potenze, in particolare Russia e Turchia, in uno scenario molto simile a quello siriano. Entrambi i paesi hanno investito molto sul terreno in termini militari per sostenere le fazioni in lotta e ora sono presenti in Libia con le loro basi che difficilmente abbandoneranno. E’ evidente, dunque, che il peso degli attori esterni sia oramai fondamentale nel ridisegnare le sorti della Libia, così come di altri Paesi".
Enrico Vendrame
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