I PARTITI A UN BIVIO
L'editoriale della settimana
La nostra democrazia rappresentativa ha retto di fronte a quell’ondata di populismo che appena tre anni fa sembrava inarrestabile. È accaduto qualcosa di simile anche in altri Paesi euro-occidentali, con la complicità non richiesta del Covid che ha fortemente ridimensionato (a che prezzo, purtroppo) le pretese pseudo-egualitarie e irrazionaliste su cui il populismo si fonda. Tali pretese, come dimostra la vicenda dell’estremismo no-vax, sono tutt’altro che estinte, ma in questa fase non appaiono in grado di determinare l’agenda politica e chi la gestisce. Anzi, almeno in Italia, la guida dell’esecutivo è nelle mani di una personalità, Mario Draghi, che pratica uno stile di governo agli antipodi del populismo. E lo rivendica orgogliosamente, come ha fatto di recente riprendendo le parole di uno storico leader Dc, Beniamino Andreatta: le cose vanno fatte perché si devono fare, anche se sono impopolari, e non per ottenere un risultato immediato. Il che non esclude – lo si è visto in questi mesi – la faticosa ricerca di una mediazione e la realistica valutazione dei rapporti di forza politico-parlamentari di una maggioranza tanto composita ed eterogenea. Il premier non si è sottratto a queste dinamiche, ma non se n’è fatto imprigionare e ha incontrato su questa linea un largo consenso trasversale presso l’opinione pubblica.
Alcuni commentatori hanno voluto cogliere in questa situazione i presupposti per una mutazione di fatto del sistema istituzionale in senso presidenzialista. È stato persino evocato De Gaulle. L’impressione, piuttosto, è che in questi mesi siano stati i partiti a mettersi spesso in fuori gioco, rincorrendo strumentalmente interessi corporativi e umori ideologici invece di cogliere la straordinaria opportunità riformatrice che si apriva con la nascita del governo Draghi. Una tattica autolesionista. Tanto più che il ruolo dei partiti si trova ora ulteriormente messo in discussione, forse anche in modo più incisivo, da un revival referendario che ha ricevuto una spinta formidabile dalla possibilità di raccogliere le firme in modalità digitale. Un passaggio le cui ripercussioni istituzionali sono tutte da vagliare e che comunque ripropone per altra via la questione della rappresentanza esplosa al tempo dell’insorgere della sfida populista. La Costituzione italiana prevede istituti di democrazia diretta complementari alla centralità del Parlamento, non sostitutivi. Non disegna un sistema fondato sul rapporto plebiscitario tra un capo e una massa indistinta, ma immagina una società articolata in corpi intermedi e afferma che “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (art. 49). I partiti italiani oggi più che mai si trovano davanti a un bivio: recuperare il ruolo che la Costituzione assegna loro nella società e nel Parlamento – impegnandosi per le riforme serie e responsabili di cui il Paese ha bisogno – oppure cavalcare l’ultima ondata emotiva, in attesa di quella successiva. Sempre che prima o poi qualcuno non cominci a dire che di partiti fatti così si potrebbe pure fare a meno.
Stefano De Martis
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