IL VIAGGIO PER ESSERE PADRE
L'editoriale del direttore don Alessio Magoga.
L'interesse per la figura paterna, oggi, è particolarmente vivo: un tema incandescente, nel bene e nel male. Non è un caso che – al netto delle sterili polemiche sulle modalità di voto – a Sanremo abbia vinto “Soldi”: una canzone che ha messo al centro la relazione (in questo caso sbagliata) tra un padre e un figlio. “Lasci la città ma nessuno lo sa – canta Mahmood –. Ieri eri qua, ora dove sei, papà?”. Già, dove sei, papà? Molti padri oggi sembrano smarriti, mentre i figli sono alla ricerca di una figura di riferimento, che dia loro sicurezza e solidità, e sembrano stentare a trovarla. In quest’epoca di travaglio, in questa fase di passaggio verso un futuro sconosciuto, risuonano preziose le parole di Johnny Dotti, imprenditore sociale e pedagogista, che è stato il relatore di uno dei quattro appuntamenti sul tema “Padri e figli”, organizzati dal Centro di Studi Biblici di Sacile. Richiamo solo alcune suggestioni della sua proposta, che tenta una ricomprensione della figura paterna attraverso un’originale rilettura di Giuseppe, il padre di Gesù. “La figura di Giuseppe è un simbolo che ha una grande capacità di parlare”: attraverso di lui, è possibile rintracciare le coordinate per effettuare quel viaggio che significa divenire padri. Il padre non è semplicemente il genitore: per diventare tale, un uomo deve acconsentire al viaggio che rende “il padre degno del figlio” (Dostoevskij). Per Giuseppe, l’inizio di questo viaggio è segnato dall’amore per una donna: il vangelo dice che Giuseppe “prese con sé” Maria, e non “prese per sé”. Prendere con sé significa interpretare la vita di coppia come incontro di due “tu” e non la somma di due “io”: si tratta di due persone che cercano il bene l’uno dell’altra e non – come talvolta capita – di due individui preoccupati del proprio benessere. “Prendere con sé” è un salto di qualità nella vita di coppia, che ha molto da dire all’uomo di oggi, malato di un certo individualismo e narcisismo (il “per sé”). Un altro passaggio chiave nella vita di Giuseppe è dato dal suo imparare ad affrontare la notte del dubbio: egli resta nell’oscurità e nell’incertezza, senza fuggirla, e un po’ alla volta, nella notte, tramite il sogno si chiarisce che cosa debba fare e quali scelte operare.
“Il padre non è luminoso”: sta nella notte, senza fuggire, e cerca faticosamente le risposte che arrivano solo quando ci si affida. Ai padri e a tutti gli uomini confusi di oggi, san Giuseppe infonde speranza: non è chiesto di avere risposte a tutte le domande, ma semplicemente di non fuggirle e di saper restare, rimanere. Le soluzioni, un po’ alla volta, trovano la loro strada. Giuseppe si prende cura di Maria e Gesù. Quando viene a sapere che Erode cerca il bambino, li prende e li porta in salvo in Egitto. Fugge da Nazareth, lascia tutto e ricomincia una nuova vita da un’altra parte: “Un padre ricomincia sempre: non può non ricominciare”. Giuseppe non consegna il proprio figlio inerme alle grinfie del potere, ma lo salvaguarda e salvaguarda i sogni di Gesù. Ai giorni nostri accade il contrario: con troppa superficialità si consegnano i giovani agli Erode di oggi (alla tecnologia, per esempio) oppure si privano i figli dei loro sogni, perché sono sostituiti dai sogni dei propri genitori. Giuseppe invece è il simbolo del padre che vuole il bene del figlio e ne custodisce il sogno: Giuseppe impara (e insegna) a non possedere il figlio, perché sa che è un dono di un altro Padre. Giuseppe (insieme a Maria) dà le coordinate di come crescere i figli. Egli sa bene che è necessaria una rete di relazioni, un intero villaggio: non si può educare un figlio solo “nelle quattro mura di un appartamento”. C’è urgente bisogno di superare l’ossessione della sicurezza, che imprigiona nelle proprie case e impedisce di stringere al di fuori della famiglia nuove relazioni, assolutamente necessarie per un sano processo educativo. I figli portano con sé l’impronta del padre. Col passare degli anni, ci si ritrova, magari inaspettatamente, con gli stessi atteggiamenti che furono dei nostri padri. Anche per Gesù fu così e deve proprio a Giuseppe qualche tratto della sua personalità: ad esempio, il suo sguardo pieno di rispetto nei confronti delle donne, almeno in parte, lo deve proprio a lui. Quelli che Dotti ha segnalato sono aspetti che forse oggi difettano e di cui c’è urgente bisogno. Grazie al cielo, però, sono testimoniati e vissuti da tanti “san Giuseppe silenziosi”, che – pur non conoscendo affatto i dettami della pedagogia – hanno semplicemente preso sul serio il loro compito di mariti e di padri e, magari in mezzo a tante fragilità e contraddizioni, si sono fatti carico della propria famiglia: nel momento dell’oscurità, non se ne sono andati, sono rimasti. A questi buoni padri silenti, poco noti e forse anche un po’ discosti come la stessa figura di san Giuseppe, va un profondo senso di gratitudine. Non solo da parte dei loro figli, ma dell’intera comunità.
Alessio Magoga
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