UN'URGENTE E GIUSTA RIFORMA
L'editoriale del direttore, don Alessio Magoga
I cinque referendum sulla giustizia non hanno raggiunto il quorum. Si sono fermati poco sopra il 20 per cento. È il risultato più basso mai raggiunto nella storia dei referendum in Italia. Da più parti sono stati bollati come un clamoroso flop. Molteplici le cause. Vi è chi se la prende con i media che non hanno dato spazio al dibattito: L’Azione, modestamente, la sua parte l’ha fatta, avendo dedicato copertina e primo piano del numero di domenica 29 maggio proprio ai referendum. Altri attribuiscono la responsabilità della debacle alla scarsa convinzione con cui le forze politiche proponenti (Radicali e Lega in testa) hanno portato avanti l’istanza dei cinque referendum. Altri ancora alla complessità dei quesiti referendari che toccavano questioni molto tecniche e richiedevano un certo sforzo di informazione (e di comprensione) da parte dei cittadini. Senza dimenticare che si è andati a votare solo domenica (e non anche lunedì) e che due quesiti referendari polarizzanti – come quello sulla cannabis e sull’eutanasia – non sono stati ammessi dalla Corte costituzionale (e conseguentemente non hanno contribuito a mobilitare l’elettorato).
Se è palese che la partecipazione è stata bassa (al di sotto delle attese), sarebbe un errore parlare semplicemente di insuccesso e non cogliere la lezione che, comunque, ci viene da questo voto referendario. Una prima serie di considerazione riguarda lo strumento referendario in sé stesso. Se, da un lato, appare sempre più evidente che non si può invocare il referendum abrogativo con troppa disinvoltura, pena il dispendio di risorse pubbliche e lo svuotamento del significato del referendum stesso, dall’altro, è ormai chiaro che tale strumento di consultazione deve essere riformato. Ad esempio, alzando il numero di firme necessarie per rendere ammissibile un quesito (500 mila appaiono oggi davvero troppo poche) e abbassando il quorum per rendere valido l’esito di un referendum (scendere al di sotto del 50 per cento più uno). Se si guarda poi con attenzione il risultato dei singoli quesiti, si scopre che i primi due (quello sulla Legge Severino e quello sulla custodia cautelare) hanno ottenuto percentuali diverse dagli altri tre: gli elettori non hanno votato “in blocco” tutti sì o tutti no, ma hanno operato delle scelte oculate, a seconda del quesito. Insomma, quanti hanno votato “hanno fatto i compiti” e si sono documentati.
Va poi rivelato – e forse questo è il dato più eclatante – che il 20 per cento dei cittadini, nonostante tutto, è andato a votare per dei referendum che domandavano sostanzialmente la riforma della giustizia italiana. Questo segnale non va affatto trascurato. Innanzi tutto, dalle forze politiche. Non solo l’Europa, non solo il Presidente Mattarella, ma anche una fetta significativa della società chiede che il “sistema giustizia” in Italia cambi. Probabilmente lo strumento referendario non è il più adeguato per attuare la riforma auspicata, che deve essere “organica” e non parcellizzata. Ma, in ogni caso, questa riforma “s’ha da fare”. Se non attraverso i referendum, sicuramente in Parlamento. In quest’ottica, il progetto di riforma della ministra Cartabia potrebbe rivelarsi una chance e ricevere ora una salutare accelerazione.
Forse la gran parte degli italiani non ha compreso la posta in gioco rappresentata dai cinque quesiti referendari – e per questo il 12 giugno non è andata a votare –, ma certamente ha davanti agli occhi alcune distorsioni della giustizia del nostro Paese. Solo un esempio: il protrarsi esagerato dei processi. I tempi eccessivamente lunghi della nostra giustizia sono già, essi stessi, un’ingiustizia. Per le vittime, innanzi tutto, ma anche per l’accusato, che – colpevole o innocente che sia – è costretto a vivere per anni in una condizione di “limbo” in attesa della sentenza. È urgente, poi, supplire alle ataviche carenze di organico ed assegnare ai tribunali strumenti e mezzi adeguati per evadere, in tempi accettabili, i troppi procedimenti giudiziari in attesa. Processi più rapidi e certezza della pena gioverebbero grandemente a tutto il Paese ed è proprio questa la riforma della giustizia – non più dilazionabile – che i cittadini si attendono.
Alessio Magoga
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