
Caro papa Francesco,
non ti abbiamo ascoltato. Forse dovremmo dire così. Con un po’ di umiltà e con spirito penitenziale. Troppo scomodo il tuo magistero. Come accade ai grandi personaggi della storia (e della Chiesa). Come accade, in un certo senso, anche al tuo Santo ispiratore, san Francesco d’Assisi, la cui radicalità – che noi spesso “imbellettiamo” per rassicurarci – resta una provocazione che sfida i tempi. Proprio come avviene, tra l’altro, da duemila anni a questa parte, al vangelo di Gesù Cristo dal quale tutto ha avuto origine.
Non ti abbiamo seguito perché “andare nelle periferie” è scomodo. Significa uscire dalla “confort zone”, cioè da quell’area di sicurezza in cui stiamo bene, caldi e coccolati, e non abbiamo problemi che ci infastidiscono. Non ti abbiamo preso sul serio nemmeno noi – mi riferisco a chi si occupa di comunicazione – quando ci hai raccomandato di “consumare le suole delle scarpe” per andare ad incontrare le persone con le loro storie. E ci hai pregato di non accontentarci di stare chiusi in ufficio, davanti ad un computer e ad una tastiera, perché l’informazione è altra cosa: è incontro con la vita e con le “storie di speranza” che questa custodisce e dischiude a chi sa interpellarla.
Non ti abbiamo ascoltato perché trasformare la Chiesa in un “ospedale da campo” – come hai ribadito in lungo e in largo – significa sporcarsi le mani con la terra e il fango della vita delle persone, che spesso non sono come pensiamo o desideriamo… e chiedono confronto, compromessi, adattamenti, idee nuove e creatività... cose tutte che costano fatica.
Fanno paura questa “precarietà” e questo confronto continuo con la storia e con il divenire mutevole delle situazioni. Fa paura soprattutto a quanti ritengono che ci siano precetti e dottrine immutabili, mentre di immutabile ed eterno è solo Gesù Cristo, il Verbo che si è fatto carne in un preciso e determinato momento storico.
Non ti abbiamo seguito perché siamo tendenzialmente portati (o più affezionati) ad occupare spazi e a gestire strutture, a marcare confini, a possedere cose, a ribadire quello che “ho fatto io”… piuttosto che “avviare processi”, come ci hai raccomandato in mille occasioni.
Avviare processi vuol dire suggerire – con gesti e parole, proprio come hai fatto tu nei tuoi dodici anni di ministero apostolico – percorsi nuovi che aprono verso orizzonti futuri, diversi e in cambiamento. Sì, fa paura cambiare. Ci viene meglio replicare il passato e fare come si è sempre fatto. Precisamente ciò contro cui ti sei battuto con tutte le tue energie.
Non ti abbiamo seguito neanche quelle volte in cui nel tuo magistero hai parlato della centralità della fede in Gesù Cristo e della “gioia del Vangelo” che nasce dall’incontro con lui. Non è bastata la tua esortazione apostolica programmatica (“Evangelii Gaudium”), non sono bastati tutti gli interventi e i documenti successivi sull’amore misericordioso di Dio e sul sacro cuore di Gesù. O tutti gli appelli in cui hai richiamato l’imprescindibile dimensione spirituale della vita del credente, chiamato alla santità (“Gaudete et exsultate”). Per molti sei stato solo un papa “sociale”, troppo sbilanciato sui temi dell’immigrazione e della custodia del creato...
Non ti abbiamo ascoltato nemmeno tutte le volte in cui ha parlato di pace. Quanti appelli alla pace – pressoché ogni domenica all’Angelus – che sono caduti apparentemente nel vuoto. La tua è sembrata proprio la “voce di uno che grida nel deserto”, come diciamo di Giovanni Battista. Non ti hanno ascoltato nemmeno tanti di quelli che domani parteciperanno, in pompa magna, al tuo funerale…
O forse no. Forse mi sbaglio. Magari ti abbiamo ascoltato. Solo che le tue parole hanno bisogno di tempo per essere accolte, per radicarsi nel cuore, per portare frutto. E forse proprio con questa speranza dobbiamo rileggere, con gratitudine grande, il tuo importante (e scomodo) pontificato.
Ora che sei nell'abbraccio del Padre, prega per noi, per la Chiesa, per il mondo. Perché cerchiamo di ascoltare e seguire Gesù, il nostro unico Signore.
Alessio Magoga