Vent’anni sono un tempo maturo per un bilancio e vent’anni sono l’età raggiunta dalla Fondazione Apsara onlus, ora Fondazione Apsara Ets, istituita nel 2004 per volontà di Onesta Carpenè, dei suoi fratelli presbiteri Giovanni e Giuseppe e di un gruppo di amici.
Denominata la "Karen Blixen" dell’Estremo Oriente, Onesta era solita ripetere a sé stessa la domanda: «Faccio ciò che dovrei fare di questa mia vita?». Visse e operò per 36 anni nell’Asia Estrema (Vietnam, Laos, Filippine, Hong Kong, e soprattutto Cambogia), prima come membro di «Association Fraternelle Internationale» (Afi), poi collaborando con una rete di ONG europee operanti in Oriente, da ultimo in qualità di leader dell’Australian Catholic Relief (Caritas Australiana) e con autonoma capacità di progettazione.
In Vietnam (1966-1976) fu testimone diretta dei bombardamenti americani, della liberazione di Saigon e volutamente partecipe dei complessi primi passi con le nuove autorità politiche venute dal Nord.
In Cambogia arrivò nel 1980 dopo la caduta del feroce dittatore Pol Pot, inviata con l’incarico di redigere una relazione sulla quale basare i primi interventi di aiuto. Vi rimase per più di 20 anni, fino al 2002, quando una grave malattia la costrinse a rientrare in Italia. Nei cinque anni che le rimasero da vivere, recuperò temporaneamente la salute e compì ben 2 viaggi in Cambogia e Vietnam, ma poi la malattia ebbe il sopravvento.
Questa la bussola che orientò costantemente Onesta: «Contrastare l’ingiustizia che produce povertà nel mondo». Non si trattava di un enunciato astrattamente utopistico, ma di un principio concreto secondo il quale leggere la realtà, smascherarne le logiche di spartizione delle risorse economiche e del potere e operare direttamente con progetti strategici volti a difendere e rafforzare l’identità culturale delle etnie più ignorate e abbandonate (istruzione), procurare i beni primari ed essenziali di sussistenza (ad es. acqua potabile), aprire prospettive di lavoro autonomo (microcredito), favorire lo sviluppo e la crescita in autonomia sotto ogni aspetto.
Anche se dovunque venne a trovarsi «non si sentì mai straniera, non fu facile il suo lavoro, né comprese e praticate le prospettive e i principi innovativi che avrebbe voluto immettere nella cooperazione internazionale. Nella stanza di lavoro a Phnom Pen, campeggiava alle sue spalle una scritta per i visitatori: «Se hai deciso di fare il bene, considera se sei disposto a portarne le conseguenze».
Apsara è il nome di una semidivinità cambogiana e questo nome Onesta diede alla Fondazione incaricata di proseguire e sviluppare, dopo di lei, gli obiettivi del suo vivere. La pensò a dimensione personale, cioè paradossalmente universale.
Al compiersi dei vent’anni, la Fondazione resta fedele al mandato originario che riconosce priorità data a «piccole iniziative locali che spesso possono realizzare un lavoro in profondità con aiuti finanziari anche molto ridotti, ma difficili da essere presi in considerazione da grandi istituzioni»; privilegia il riferimento alle popolazioni dell’Asia, ma sta aprendo e allargando gli orizzonti.
Già Onesta tese la mano all’India, in specie all’Orissa, Stato povero, dove spesso i difficili rapporti interreligiosi sfociano in assalti furiosi sugli "intoccabili": schiere di giovani da formare, istruire e orientare.
Fu poi la volta dell’Africa: dapprima interventi episodici in Tanzania (ortopedia pediatrica) e Costa d’Avorio (Coltivare e trasformare il futuro: formare 50 giovani in situazione di disagio); ora la presenza è strutturale e continuativa in Benin in collaborazione con una associazione piemontese ("L’Abbraccio"): costruzione di una neonatologia che presto sarà dotata anche di una sala di rianimazione pediatrica e assunzione del costo degli stipendi del personale tutto locale.
Apsara vive i drammi del tempo presente: ha dato ospitalità nella sua sede di Conegliano a tre famiglie ucraine ed è di questi giorni l’avvio di un progetto con Emergency per la Striscia di Gaza: garantire l’accesso ai servizi sanitari di emergenza e di base al fine di ridurre mortalità e morbilità.
Lamberto Pillonetto