COVID 19. Don Carraro: “L’Africa vive un’apartheid vaccinale”
Il direttore del Cuamm offre il quadro della situazione nel Continente nero, dove la pandemia si è diffusa a macchia di leopardo e a ondate
“Il Covid in Africa sta camminando e continuando a diffondersi, anche se non si hanno certezze sull’impatto reale essendoci pochissime possibilità di fare test, in numero comunque marginale rispetto alla quantità della popolazione africana”. Questa la fotografia che ci offre don Dante Carraro, direttore di Medici con l’Africa Cuamm, sulla situazione della pandemia nel Continente nero. “Quello che stiamo toccando con mano è che i Paesi hanno delle ondate di diffusione dei casi. Queste ondate non sono prevedibili né uniformi”, ci spiega.
Tra gli otto Paesi africani dove siete presenti quale preoccupa di più?
L’anno scorso in Tanzania sembrava che l’impatto del Covid fosse stato molto limitato, in parte perché il suo presidente John Magufuli era di fatto un negazionista; in parte perché nel 2020 negli ospedali sembrava effettivamente che il Coronavirus non stesse avendo un impatto così drammatico. Quest’anno invece c’è stata una recrudescenza e negli ospedali i numeri dei malati di Covid sono aumentati, anche senza avere certezze per la mancanza di test. In quella fase il presidente negazionista impediva che nelle strutture venisse fatto il triage, che ci fosse un’Isolation Unit dove ricoverare i pazienti sospetti, addirittura era vietato l’uso della mascherina in ospedale. Poi Magufuli si è ammalato di Covid ed è morto. La nuova presidente, Samia Suluhu Hassan, ha cambiato atteggiamento prendendo atto della diffusione del Covid nel Paese. Questo ci ha consentito di poter mettere in atto la protezione individuale, il triage, l’isolamento dei casi sospetti, di riorganizzare gli ospedali.
Nell’ospedale di Tosamaganga ci sono 160 posti letto, 120 li abbiamo dedicati alla Medicina, di cui 90 sono destinati ai pazienti Covid. Ad oggi molti dei 90 ricoverati per Coronavirus hanno bisogno estremo di terapia, in particolare di cortisone ed eparina, e i pazienti più gravi hanno bisogno di ossigeno. Siccome non ci sono quelle bocchette dell’ossigeno nelle pareti degli ospedali vicino al letto del paziente, come succede in Occidente, in Africa servono i concentratori di ossigeno vicino al letto del malato e sono necessarie le bombole di ossigeno che vanno acquistate e sono costose.
Recentemente abbiamo donato 50 cilindri di ossigeno e abbiamo tentato di rimettere in sesto tutto il sistema di collegamento con i cavi e i tubi per una ossigeno terapia efficace. In ospedale ci chiedono continuamente anche farmaci. A causa della variante delta, ci sono stati molti morti anche tra i giovani; tra loro due donne incinte con i loro bimbi in grembo. Ora sembra che ci sia un rallentamento del numero di casi. In Uganda invece ora si sta vivendo la terza ondata, in Etiopia la prima ondata c’è stata l’anno scorso, quindi l’andamento è molto difforme.
Si riesce ad avere un numero approssimativo di casi in Africa?
Complessivamente viene calcolato, anche se a fatica vista la scarsità di tamponi, che siano circa cinque milioni i casi positivi di Covid rispetto al miliardo e 300 milioni di persone che vivono in Africa e all’incirca 150mila morti, il 3% di casi di Covid rispetto al mondo.Sembrerebbe un numero basso, ma il Covid sta arrecando grave danno alla situazione socio-sanitaria del Continente.
La paura sta allontanando i pazienti, le mamme, i bambini, i giovani in terapie croniche dalle cure.
Nei 23 ospedali degli 8 Paesi dove stiamo lavorando abbiamo avuto un calo delle persone che accedono all’ospedale. Ad esempio, in Sierra Leone, dopo 5 anni di lavoro nella più grossa maternità del Paese, nella capitale Freetown, nel 2019 avevamo raggiunto la quota di 8.300 mamme che accedevano ad un parto sicuro. Nel 2020, abbiamo avuto 6.300 mamme assistite nel parto, 2mila mamme perse a causa della paura per il Covid e anche del blocco dei trasporti, sempre legato alla pandemia. Ugualmente se non vengono in ospedale i malati di tubercolosi, i sieropositivi o i diabetici, tutti bisognosi di terapie quotidiane, rischiano la vita.Si sta aggravando, quindi, la situazione sanitaria di Paesi che erano già fragili prima della pandemia.
Come si può ovviare a questa crisi?
Siamo convinti che una risposta sia la vaccinazione. In Italia finora abbiamo inoculato 70 milioni di dosi, raggiungendo grosso modo il 60% della popolazione. Lo stesso numero, 70 milioni di dosi, è stato inoculato nel Continente africano, ma rispetto agli abitanti vuol dire che solo l’1% è stato vaccinato. Non è solo ingiusto, ma è anche pericoloso per la nostra sicurezza, perché senza vaccini il virus si replica e le varianti sono direttamente proporzionali al numero di replicazione del virus. Se tutti sappiamo cos’è l’apartheid legata alla razza, oggi mi sento di dire è che l’Africa vive un’apartheid vaccinale.
Perché ci sono così poche vaccinazioni?
Innanzitutto, ci sono pochissime dosi vaccinali. Deve essere, quindi, aumentata poderosamente la produzione.Il Papa è stato profetico quando ha subito detto che brevetti e tecnologie devono essere condivisi in modo da poter produrre il vaccino in tutto il mondo. Ci sono, poi, dei Paesi che hanno accaparrato una quantità di dosi vaccinali maggiore di quella necessaria alla propria popolazione. Ad esempio, il Canada con 35 milioni di abitanti ha già acquistato più di 200 milioni di dosi vaccinali. Sarebbe un bel gesto mettere a disposizione dei Paesi che non ne hanno quelle dosi vaccinali che sono in più nel proprio. Ancora: le dosi vaccinali dovrebbero essere distribuite ai Paesi africani in maniera ordinata, invece non c’è nessuna pianificazione. Le prime dosi vaccinali che sono arrivate in Sierra Leone sono state 40mila per 8 milioni di abitanti e in Mozambico 150mila per 30 milioni di abitanti, quindi largamente insufficienti. Queste prime dosi erano di vaccini cinesi, nessuno sapeva che arrivassero per cui i Paesi erano impreparati a gestirle. Poi la macchina ha iniziato leggermente a funzionare. Anche il network Covax, oltre a fornire un numero insufficiente di dosi, non riesce a garantire un minimo di pianificazione e regolarità con cui queste dosi vaccinali arrivano.In Etiopia sono arrivate le dosi di AstraZeneca di produzione indiana, le prime sono state usate, come ovunque, per gli operatori sanitari con la fiducia che sarebbero arrivate per tempo le altre dosi vaccinali per il richiamo invece sono passati 3 mesi e le altre dosi non sono mai arrivate.
Cosa si può fare?
Come Cuamm abbiamo lanciato la campagna di raccolta fondi “Un vaccino per tutti”, per trasformare le dosi vaccinali in vaccinazioni vere e proprie: questo vuol dire aiutare i sistemi locali a trasportare dalla capitale dove arrivano le dosi vaccinali anche nelle zone rurali. Quindi servono i pickup, dove caricare gli scatoloni di vaccino AstraZeneca, poi dagli ospedali partono le motorette con operatori locali che caricano uno scatolone di dosi vaccinali, siringhe, cotone, disinfettante per arrivare al centro sanitario più periferico e alla popolazione dell’ultimo miglio del sistema sanitario a noi tanto caro.Occorre quello che è necessario per conservare le dosi vaccinali: dai frigoriferi più grandi ai box da picnic, ma per raffreddare questi contenitori servono generatori di corrente o a gasolio. Quando siamo nel villaggio ci occupiamo della formazione del personale locale per questo tipo di vaccinazione, di rendere cosciente la comunità dell’importanza del vaccino, di registrare bene le persone vaccinate, infatti l’anagrafe c’è solo nei Paesi avanzati. Chiediamo un aiuto alle persone perché questo diritto sacrosanto a essere vaccinato sia per tutti.
Su questo il Papa è un faro non solo per noi operatori sul campo, ma anche per tutte le istituzioni internazionali. Infine, vorrei dire una parola sulla questione terza dose su cui si è espressa anche l’Oms.Se è vero che siamo uguali davanti a Dio e all’umanità, prima di fare la terza dose a chi ha già una certa protezione, è doveroso pensare a chi non ne ha avuto neppure una.
Gigliola Alfaro
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