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La storia dei fratelli Carretta, nati e cresciuti in Zambia

La mamma è originaria di Codognè.

La storia dei fratelli Carretta, nati e cresciuti in Zambia

«Mi piace lo Zambia perché è un paese caldo e il calore fa essere le persone più amichevoli e accoglienti». Scrive così Damiano Carretta, 16 anni, in una lettera che abbiamo pubblicato nel sussidio pastorale dello scorso Avvento, preparato dagli uffici pastorali diocesani e diffuso insieme al nostro settimanale. Damiano vive con i fratelli Filippo e Giuseppe e i genitori Simonetta ed Enrico nella missione comboniana di Chikowa. Come i suoi fratelli, è nato in terra africana, dove i suoi genitori si sono stabiliti dal 1997. Simonetta è originaria di Codognè, Enrico di Vicenza. Si erano conosciuti nel 1995 proprio a Chikowa: lei era studentessa del secondo anno di infermieristica e coltivava già da un po’ la voglia di partire, fare un’esperienza di missione, dedicarsi agli altri ma non solo. «La mia era una ricerca, un modo di vivere diverso, lontano dal consumismo », racconta. Enrico veniva da un’esperienza missionaria: dal 1990 al 1992 aveva fatto il volontario a Chikowa.

Abbiamo messo assieme i nostri sogni

«Abbiamo messo assieme i nostri sogni e ideali, e assieme siamo partiti – racconta Simonetta in una recente lettera –. Ci siamo sposati nel dicembre del 1996 e a gennaio del 1997 siamo partiti per Chikowa. Mi piace pensare che le nostre vite fanno parte di un immenso puzzle e ogni singolo puzzle è diverso e unico, e Dio dall’alto si diverte a costruire questo puzzle e mette i pezzetti giusti al posto giusto, e noi siamo questi pezzetti nelle Sue mani. Io ed Enrico ci siamo trovati come due piccoli pezzetti che si sono uniti alla perfezione, con tutti i difetti e le difficoltà quotidiane, perché quelle non mancano mai».

Slegati da qualsiasi organizzazione

I due sposi non hanno mai voluto far parte di nessuna organizzazione. «I comboniani ci hanno accolto e per quasi sei anni abbiamo fatto un servizio di volontariato. Enrico seguiva la falegnameria del progetto e la scuola professionale assieme al fratello comboniano portoghese Francisco. Io come infermiera ho cercato di aiutare come potevo con risorse limitatissime. All’epoca a Chikowa non c’era ancora la corrente elettrica e le strade erano molto brutte, per cui eravamo parecchio isolati».

Giuseppe “il piccolo bianco”

Nel 1998 è nato Giuseppe. «Esperienza meravigliosa. I comboniani sono stati fantastici, Giuseppe era la piccola mascotte, il piccolo bambino bianco. La gente di Chikowa non aveva mai visto un neonato bianco, venivano a vedere il “Kamzungu” come lo chiamavano e cioè il piccolo bianco. Ogni giorno avevo la processione di gente che veniva a vedere Giuseppe :)». Nel 2000 l’arrivo dei gemelli, Filippo e Damiano. «Un dono grandissimo, nati l’anno in cui è mancato mio papà. Ancora la gente del luogo veniva a vedere i gemelli bianchi, increduli che una donna bianca potesse partorire dei gemelli. I ragazzi sono cresciuti, credo normali, non ci è mancato mai nulla. Non è sempre stato facile, abbiamo attraversato molte difficoltà, soprattutto quando i ragazzi stavano male. Lontani da ogni ospedale, abbiamo sempre cercato di affrontare e risolvere i problemi. Soprattutto con Damiano, che soffriva di convulsioni febbrili ogni volta che aveva la febbre. Spesso ci siamo chiesti se avevamo fatto la scelta giusta, ma ci siamo sempre affidati».

I figli crescono, cosa fare?

«Con i ragazzi che crescevano abbiamo dovuto affrontare il problema della loro educazione. Cosa fare? Ci siamo spostati in città, e quelli sono stati momenti molto pesanti. Ma abbiamo tenuto duro perché io ed Enrico eravamo convinti di quello che volevamo fare. Enrico nel frattempo, dopo diversi anni, era riuscito a trovare un lavoro con una piccola organizzazione italiana in cui si occupava di sostegno a distanza. Io l’ho sempre aiutato nella parte amministrativa e con i fondi raccolti siamo riusciti a mettere in piedi tre centri nutrizionali, un asilo comunitario e seguire una cinquantina di bambini affetti da idrocefalia. La nostra diocesi, tramite l’ufficio missionario, sostiene questi progetti. Nel frattempo la scuola che frequentava Giuseppe è stata chiusa e ci siamo ritrovati nuovamente ad un bivio. Cosa fare? L’educazione è importante. E da qui ho iniziato a fare “home school” a tutti e tre i miei ragazzi. Scuola famiglia. Mi sono messa con loro a imparare l’inglese e piano piano siamo tutti e quattro ritornati a scuola. Esperienza molto bella e arricchente, non senza difficoltà perché io mi sono ritrovata ad essere mamma/maestra/amica... Giuseppe ha 19 anni, Filippo e Damiano 16. Sono sereni, normali, e questo è importante per noi, perché anche loro hanno condiviso le nostre scelte di vita. Non ci sentiamo speciali, ognuno di noi è chiamato a fare la sua parte, chi la fa in Italia e chi decide di farla in questi paesi. Ognuno di noi è parte di questo immenso puzzle, tutti importanti ed essenziali nel costruire un mondo migliore».

Abbiamo fatto solo cose ordinarie

«Mi è stato chiesto molte volte: “Ma alla fine cosa hai fatto? Cosa hai cambiato? Quello che fai lì lo potresti fare meglio in Italia”. È vero, non ho cambiato il mondo, non ho cambiato il sistema, non ho salvato vite, non ho contribuito a migliorare Chipata/ Chikowa..., ho fatto la mia parte, piccola. Ho visto i sorrisi nei volti delle mamme, ho visto i sorrisi nei volti dei bambini idrocefali quando riusciamo a organizzare delle attività con loro. Vedo i sorrisi dei bambini dell’asilo comunitario. Vedo la speranza di un futuro migliore nei volti della gente. La strada da fare è molta, il lavoro tantissimo, ci vuole tempo, costanza, fede, amore e mai “give up” come dico sempre ai miei ragazzi, mai mollare. No, non abbiamo fatto cose straordinarie, ma solo cose ordinarie. Egoisticamente sono riuscita a realizzare il mio sogno di avere una famiglia in questa parte del mondo». Giuseppe: siamo avvolti dal calore Ma i figli come vivono la scelta radicale? «Mi piace vivere in Zambia perché il sole brilla tutti i giorni, indipendentemente dal periodo dell’anno, e il calore sembra avvolgerti come una coperta spessa in inverno – spiega Giuseppe –. Un’altra importante ragione del perché mi piace vivere in Zambia è che ogni singolo giorno ti svegli e puoi ammirare un’alba ancora più meravigliosa di quella che vedresti nel “Re Leone”. Ancora mi piace vivere qui perché ogni volta che gioco a calcio con i bambini locali ci sono sorrisi ovunque guardi, nonostante stiano perdendo 5 a 0».

Filippo: vedo cose straordinarie

Filippo, 16 anni, attualmente segue un corso di homeschool inglese e ogni anno va ad Oxford, in Inghilterra, per fare gli esami. «La mia vita in Zambia è l’aspetto fondamentale che mi ha reso la persona che sono oggi. Il fatto di vedere gli altri bambini, anche più giovani di me, fare le cose che io o gli altri bambini in Italia non facciamo, mi fa capire quanto io sia fortunato. Ho visto bambini a piedi portare a casa un secchio d’acqua sulla testa, ho visto bambini percorrere a piedi molti chilometri per andare a scuola ogni giorno. Ho visto alla fine della giornata tanti bambini rannicchiati tutti assieme per fare i compiti per il giorno dopo. Ho anche visto bambine (di 5 anni o giù di lì) prendersi cura dei loro fratellini, tenendoli sulla schiena legati con un pezzo di stoffa o in braccio, mentre i genitori vanno a lavorare. Eppure, alla fine della giornata, quando questi bambini vengono fuori a giocare a calcio con me continuo a vedere i sorrisi sui loro volti mentre giocano con la palla».

Damiano: “Il calore fa le persone più amichevoli”

Per Damiano «le persone in Zambia sono più vive e vibranti. È una cultura calda: in Italia non sarà mai così, perché è fredda. Mi piace lo Zambia perché è un paese caldo e il calore fa essere le persone più amichevoli e accoglienti. Mi trovo più rilassato con la vita in Zambia. Percepisco che questo paese ha più da offrire in termini di esperienze esteriori e interiori».

Federico Citron

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