REFERENDUM: D’Incà per il sì, De Poli per il no
Confronto nel nuovo numero dell’Azione
«Già Luigi Einaudi diceva che assemblee molto numerose rischiavano di rendere il percorso legislativo poco concreto. Considero il numero attuale dei parlamentari sovradimensionato rispetto alle necessità del Paese; con un bicameralismo perfetto dobbiamo ridurre il loro numero. Oggi non c’è una grande fluidità del processo legislativo ed è il momento di prendere in mano anche i regolamenti di Camera e Senato per cambiare alcuni aspetti che oggi rendono il Parlamento non luogo della discussione ma della polemica. Il Parlamento invece deve avere un ruolo chiave per discutere, confrontarsi e trovare soluzioni condivise non solo all’interno della maggioranza ma anche con l’opposizione al fine di rendere solido il Paese». È un passaggio dell’intervista sul referendum del 20 e 21 settembre, pubblicata sul nuovo numero dell’Azione, a Federico D’Incà. Classe 1976, di Trichiana, «dove torno appena posso perché passa tutto – la carica di ministro, la politica – ma non passa la famiglia», deputato alla seconda legislatura per il Movimento 5 Stelle – da un anno è ministro per le riforme e per i rapporti con il Parlamento, quel Parlamento che in caso di vittoria dei “sì” al referendum perderà per strada 345 degli attuali 945 parlamentari.
Invece il senatore Antonio De Poli, 59 anni, padovano - già sindaco di Carmignano di Brenta, assessore regionale, europarlamentare, deputato - è uno dei 71 senatori che hanno firmato la richiesta di referendum sulla legge per il taglio dei parlamentari che era stata approvata a larga maggioranza. «Ciò che serviva era un serio progetto di riforma complessivo e strategico, in grado di garantire l’equilibrio tra i poteri dello Stato (Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica e Corte costituzionale) e il funzionamento del nostro Stato democratico, voluto dai nostri Padri costituenti. La riduzione dei parlamentari, così come è stata impostata, svilisce il Parlamento e il concetto di democrazia rappresentativa. Noi sosteniamo il “no” perché questa riforma ha solo un effetto: tagliare rappresentanza nei nostri territori. Come sostengono autorevoli costituzionalisti, il rischio è la formazione di maggioranze che, con gli attuali sistemi elettorali, hanno la possibilità di eleggersi da sole, ad esempio, il presidente della Repubblica che, in questo modo, non sarebbe più una figura di garanzia e di unità del Paese. È in gioco l’equilibrio fra i poteri dello Stato previsto dalla nostra Costituzione».
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