VENEZIA: l’omelia del Patriarca per la festa della Madonna della Salute
Un appello alla responsabilità di ciascuno in questo momento delicato
Ieri, domenica 21 novembre, il patriarca Francesco Moraglia ha presieduto alle 10 la messa nella basilica della Salute a Venezia, in occasione della festa della Madonna della Salute. Ecco il testo integrale dell’omelia.
Siamo giunti anche quest’anno a compiere il gesto del pellegrinaggio alla Madonna della Salute per sciogliere il voto che, quasi 400 anni fa, la città di Venezia volle fare per chiedere aiuto alla Madre del Redentore dinanzi ad un pericolo gravissimo che minacciava non solo la salute di molti dei suoi abitanti ma la stessa sopravvivenza della città.
Le nostre preghiere di oggi ricordano, in parte, quelle di allora. Le cronache di questi giorni rimandano, nelle mutate situazioni storiche, a quelle del XVII secolo; siamo, infatti, ancora alle prese con una pandemia che condiziona la nostra vita quotidiana, ci affligge ormai da quasi due anni e non è stata ancora debellata.
I mesi di pandemia - e non meno gli ultimi giorni - ci hanno fatto toccare con mano la nostra fragilità e debolezza, cancellando ogni pensiero di umana onnipotenza e insegnandoci, pure, che non bisogna dare nulla per scontato e come ognuno di noi – secondo i propri compiti - sia tenuto a prudenti e solidali comportamenti, consoni al difficile momento che viviamo.
Così, con senso di responsabilità, verso di sé e gli altri, perseguiamo il contenimento del contagio guardando sia al bene personale sia a quello comune, alla salute “integrale” dell’uomo che è – insieme - fisica, psichica, spirituale.
Nemmeno l’auspicata “ripresa” - in cui tutti confidiamo e, in particolare, le famiglie e le imprese più provate – può essere data per scontata se ognuno di noi, ad iniziare da chi ha maggiori possibilità d’intervento, non farà quanto gli è chiesto per il bene presente e futuro della comunità a cui appartiene.
In tal modo giungiamo umili, pellegrini e oranti alla Madonna della Salute e non ci vergogniamo di rivolgerci ancora a Lei per invocare - attraverso la sua potente intercessione - la pace e la salute, ossia la salvezza di cui abbiamo bisogno. Lei è Madre!
La Chiesa che è in Venezia, insieme con le altre Chiese che sono in Italia e all’intera Chiesa universale, è impegnata nel Cammino sinodale appena iniziato e che, con l’aiuto e il discernimento dello Spirito Santo, desideriamo vivere da discepoli del Signore Gesù, guardando a Lui come al Maestro, al Signore, al Redentore. Viviamo, perciò, quest’anno la festa della Madonna della Salute con questo spirito e con queste motivazioni.
Ritorniamo, ora, alla pericope del Vangelo (Gv 2,1-11) appena proclamata. L’episodio delle nozze di Cana è testo centrale nel Vangelo di Giovanni e, per i contenuti e il contesto, si presenta come sintesi dell’intero Vangelo di Giovanni e dell’intero Nuovo Testamento.
C’è innanzitutto Gesù, che è tra gli invitati, ma in realtà è il vero Sposo e, quindi, è il protagonista; poi c’è Maria, la madre di Gesù, che ritroveremo ai piedi alla croce nell’ “ora” di Gesù. Maria ci appare, subito, come la prima e più fedele discepola, Colei che guarda a Gesù – e invita a guardarLo e a fare quello (qualunque cosa!) che Egli dirà (cfr. Gv 2,5) - perché solo Lui può compiere il miracolo e portare salvezza.
Gesù è il vero Sposo dell’umanità che è rappresentata da Maria - sposa, madre, discepola, modello della Chiesa – e, poi, anche dai discepoli. Non a caso la pericope evangelica si chiude, come abbiamo sentito, in modo singolare e solenne: “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11).
All’inizio del Cammino sinodale ci è consegnata questa icona della Chiesa disposta come Maria e i discepoli attorno a Gesù, il quale manifesta non tanto la sua potenza ma la sua “gloria”, qualcosa che va al di là della pura potenza e che conduce, invece, direttamente alla Sua “ora” di morte e risurrezione, Lui che – come scrive l’apostolo Paolo nelle prime righe della lettera ai Romani – è “nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti” (Rm 1,3-4).
Le nozze di Cana sono poste all’inizio di una sezione del Vangelo di Giovanni accuratamente pensata. In essa viene narrato il primo dei sette grandi “segni”, gli eventi prodigiosi compiuti da Gesù e che caratterizzano l’intero quarto Vangelo. Il segno - lo sappiamo - è qualcosa che ci è dato per andare oltre; il rischio è che il segno diventi fine, perdendo la sua realtà propria di segno.
Giovanni qui ci presenta il “segno” dell’acqua tramutata in vino e più avanti, alla fine del capitolo quarto, sempre a Cana di Galilea, c’è un secondo “segno” (Gv 4,46-54): la guarigione a distanza del figlio malato del funzionario del re che abitava a Cafarnao.
Le nozze di Cana, secondo l’evangelista Giovanni, sono l’annuncio e il compimento della nuova creazione operata da Gesù. Il libro della Genesi narra la settimana in cui – giorno dopo giorno - si sviluppa l’opera di Dio, la creazione del cielo, della terra, degli animali, dell’uomo, una settimana che avrà termine col riposo di Dio. Giovanni narra la nuova creazione, ossia la vocazione-chiamata dei discepoli; tutto è descritto fra il primo e il secondo capitolo e il ritmo è quello settimanale.
Invito a rileggere queste prime pagine del Vangelo di Giovanni che seguono il prologo (1,1-18) e la presentazione di Giovanni il Battista (1,19-28). È l’inizio di una narrazione in cui gli eventi vengono introdotti da una ripetuta scansione temporale che, alla fine, compone il numero sette (la settimana della Genesi).
Il testo s’esprime così: “Il giorno dopo” Giovanni Battista vedendo Gesù lo indica a tutti: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (1,29-34). Subito dopo leggiamo: “il giorno dopo”, ed è ancora il Battista che conversa con due discepoli e guardando Gesù che passa dice: “Ecco l’agnello di Dio!”. I due discepoli seguono Gesù e ne chiamano altri (1,35-42). Il testo continua: “Il giorno dopo”, Gesù incontra altri discepoli (1,43-51) e, infine, l’evangelista annota: dopo tre giorni “vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea” (2,1-11). Ora, sommando i singoli giorni, dopo la testimonianza del Battista (1,19-28), ne contiamo sette; sì, una settimana. Si tratta, quindi, della nuova creazione; qui non vengono creati il cielo, la terra, gli animali, l’uomo ma gli apostoli, i nuovi discepoli, la Chiesa.
Capiamo allora come l’episodio delle nozze di Cana sia così rilevante nel quarto Vangelo, tanto da sigillarlo con queste parole: “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11).
Gesù è la novità della storia, è Lui il cuore della rivelazione, è Lui l’eterno Sacerdote e, quindi, il Cammino sinodale che abbiamo appena iniziato sarà tanto più vero quanto più ci ascolteremo reciprocamente, dando voce a tutti, camminando insieme, sapendo che siamo chiamati a tenere fisso lo sguardo sul Signore Gesù, vera novità e riforma della Chiesa.
Anche le anfore di pietra utilizzate per la purificazione rituale dei Giudei, che contenevano l’acqua tramutata in vino, ci rimandano a questa realtà ricordandoci - come fa l’autore della lettera agli Ebrei - l’impotenza del sacrificio antico e l’assoluta preminenza di Gesù (cfr. 7,18-28) che, sollecitato da Maria, prende l’acqua che era nelle vecchie anfore e ne fa sgorgare con abbondanza il vino “nuovo”, il vino “buono”.
È evidente il richiamo all’Eucaristia: il vino nuovo che viene donato da Gesù, il contesto del banchetto che rimanda a quello eucaristico, l’anticipazione del banchetto escatologico e il rinvio ad esso.
Il Vangelo di Marco, nostro patrono, racconta l’istituzione dell’Eucaristia con queste parole: “E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio»” (Mc 14,22-25). L’efficace purificazione viene attraverso quel vino “nuovo” i cui acini d’uva sono stati torchiati nella passione, nella morte e nella risurrezione del Signore Gesù.
Quando si parla dell’Eucaristia, si può ridurla a “qualcosa”, ad un nostro possesso o ad un semplice rito della Chiesa e, in ogni modo, a qualcosa su cui si dispiega il controllo umano. La rivelazione parla un altro linguaggio.
La comunità ecclesiale non è padrona dell’Eucaristia, così da poter esercitare su di essa un dominio; il gesto eucaristico, infatti, è sempre prima di tutto un atto di Cristo, lo Sposo, che abilita la Chiesa, sua sposa, a compiere il medesimo atto.
La testimonianza dell’apostolo Paolo è chiara: «Io… ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”» (1Cor 11,23-25).
La Chiesa, quindi, non può disporre dell’Eucaristia senza un fedele riferimento alla Rivelazione. La Chiesa (la sposa) sa d’essere plasmata da Cristo (lo Sposo); propriamente la Chiesa non possiede l’Eucaristia ma è posseduta dall’Eucaristia e ne è plasmata, è l’esito dell’Eucaristia e, quindi, appartiene all’Eucaristia e non viceversa. L’Eucaristia è Gesù in persona che si dona e si fa presente in modo sacramentale, ossia nel mistero.
Anche nel Cammino sinodale sarà essenziale guardare all’Eucaristia non come a puro segno o semplice banchetto o incontro di fratellanza umana. Tutto ciò sarebbe ancora poca cosa e, alla fine, una incomprensione del dono di Dio. L’Eucaristia, invece, va riscoperta come incontro personale con Gesù, il Risorto; è incontro con la Sua persona e si tratta, alla fine, d’inscrivere le Sue parole e i suoi gesti nella nostra vita e in quella dell’intera comunità. L’Eucaristia è la vita, la morte e la risurrezione che si compiono nell’ora di Gesù, donatoci nel convivio.
Nel racconto delle nozze di Cana, come già accennato, gli sposi – che pure dovrebbero essere i protagonisti - non entrano mai in scena (a parte il breve dialogo tra lo sposo e chi “dirigeva il banchetto” - Gv 2,9-10), perché il vero Sposo è Gesù e la vera sposa è l’umanità. L’inizio del secondo capitolo contiene il senso complessivo del Vangelo di Giovanni e non è un caso che, in esso, “campeggi” la figura di Maria, la donna, la madre, la sposa, la discepola, la Chiesa, l’umanità.
Il banchetto nuziale di Cana rimanda all’altro banchetto descritto nel vangelo di Luca. Gesù cammina lungo la strada con i due discepoli di Emmaus che, solo alla fine, comprendono e credono diventando immagine della Chiesa (cfr. Lc 24,13-35). Sono l’immagine che bene esprime, oggi, la Chiesa impegnata nel cammino sinodale; essi, infatti, parlando tra loro dei fatti che stanno vivendo, incontrano Gesù, ascoltano la Sua Parola e nel gesto della fractio panis si scoprono credenti e annunciatori di Gesù risorto.
“Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11): il Cammino sinodale che stiamo iniziando ci aiuti a vedere e a cogliere i “segni” con cui Gesù si rivela, i “segni” della sua gloria e non di potenza mondana da cui i discepoli devono sempre guardarsi.
Ci accompagni nel cammino la materna intercessione di Maria, sposa, madre, discepola, Colei che ci invita a guardare a Gesù e a fare quello che Egli dice. La Madonna della Salute sia la stella sicura e luminosa che indica la meta del Cammino sinodale della nostra Chiesa: Gesù, il Santissimo Redentore.
(foto di Chiara Poli per Gente Veneta)
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