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Suor Maria (Concetta) Tonon: un ricordo lungo 90 anni

Testo scritto dai familiari in occasione del suo 90° compleanno. Suor Maria è mancata lo scorso 18 aprile.

Suor Maria (Concetta) Tonon: un ricordo lungo 90 anni

Lunedì scorso, a 96 anni, nella sede veneziana dell’Istituto della Piccola Casa della Divina Provvidenza del Cottolengo, è tornata alla Casa del Padre suor Maria Tonon. Suor Maria, Concetta all’anagrafe, è nata il 5 settembre 1919 a Castello Roganzuolo.

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I ricordi più lontani di suor Maria vanno a quell’erta ripida che portava e porta ancora alla nostra chiesa, la riva de ‘a cesa, quella che veniva affrontata, assieme a tutti, piccoli, piccolissimi e grandi, ogni mattina alle 6 per la messa. La sua casa era appena sotto la riva ed al ritorno sopra la tavola c’era pronto per tutti il latte appena munto con la sua panna assieme alla polenta brustolàda fumante. Un sapore straordinario ed unico che poi si è perduto nel tempo, assieme a tanti altri sapori, colori, voci… Voci che ogni tanto ritornano insistenti a ricordarle quel periodo meraviglioso in quel cortile pieno di vita che incombeva sul borgo Gradisca. Ritornano per poi riperdersi. Poi via tutti a scuola o all’asilo. Era una famiglia numerosa, quella bas a riva de ‘a cesa, c’erano nonni, zii, nipoti, cugini... erano talmente in tanti che suor Maria fatica a ricordarli tutti. Ricorda che il venerdì santo sulla tavola c’era la bisàta con la polenta, che inondava con la sua fragranza tutte le stanze della casa ed a Natale il mandorlato portato da zio Doro era per quella folta schiera di bambini una novità tanto grandiosa quanto la nascita del Bambin Gesù. Sembra non se la passassero poi tanto male quelli che dimoravano bas la riva de ‘a cesa. Non meno straordinaria del Natale era la ricorrenza del primo dell’anno quando si andava a far gli auguri ai santoli che ti davano cuche, nosèle e fighi sèchi: una goduria, almeno per quei tempi.

A Pasqua, oltre alla Resurrezione di nostro Signore, c’era la focaccia fatta in casa, anche questa mai più degustata da suor Maria in vita sua. Panevìn aspettavi un anno che arrivasse perché era uno spettacolo megafantasmagorico. Partivano da casa con le fiaccole che illuminavano il percorso verso la grande catasta di legna, stoppie e rovi, in fila indiana dietro a nonno Giacomo cantando le antanìe. Il fascino del fuoco della notte con le preghiere e le antanìe urlate a squarciagola ad invocare la buona annata rendevano questa la più unica e suggestiva delle cerimonie, più sacra ancora delle messe e dei vespri che costituivano ormai parte della loro esistenza. A rendere la cerimonia ancora più grandiosa dopo i canti e le preghiere c’era la pinza con i fichi secchi. A San Pietro la grande sagra patronale sconvolgeva la vita del paese nel senso che in borgo Gradisca arrivavano le baracche con i buzolà de San Piero. Quel giorno Luigi (Jjet) Tonon portava i figli nell’osteria del mitico Tita Tonon, in fondo al borgo per offrire loro la birra. Suor Maria ricorda che non era in grado di apprezzare tale bevanda. Ricorda che invece c’era ressa attorno al banco che lo stesso Tita allestiva dopo il Vespro domenicale nei mesi di luglio e agosto bas a riva de ‘a cesa. Non per comprare le fette di anguria ma per contendersi quel velo rosso che poteva restare sulle scorze buttate nel mastello… Concetta era la seconda di quella grande nidiata che alla fine avrebbe contato 12 fratelli (6+6).

Ricorda di aver fatto lei la maestra ai fratelli e cugini (tra questi ricorda particolarmente Olga, Bepo, Cente e Maria). Li aiutava nei compiti assegnati per le vacanze, allora obbligatori, e il luogo dove si esibiva come maestra era un terrazzino costruito nel ’25. Ma quando erano tanti doveva mettersi in quel plesso più grande che era il cortile di casa Tonon dove d’estate maturava precoce il clìnto, un’uva nera dolcissima. Ma poi Concetta finiva sempre a dare una mano in cucina, sentiva forte il desiderio di aiutare la mamma nelle faccende domestiche. Voleva lavare lei i pannolini dei fratelli e cugini neonati, e siccome mamma Angela temeva che la piccola lavandaia finisse annegata nel grande mastello, alla Concetta avevano regalato un mastelletto fatto su misura con relativa tavola per battere i panni. Quella casa a suor Maria è rimasta nel cuore. Ha cambiato vari proprietari ed è stata più volte ristrutturata tanto che oggi la troverebbe irriconoscibile. Il pozzo è stato chiuso ed ora è un insignificante simulacro di pietra senza più vita. Non ci sono più le rigogliose viti del clìnto che ombreggiavano d’estate l’intero cortile. E’ sparito anche il grande corniolo che attirava la gente del borgo tanto era generoso di frutti dolcissimi. Fu orgogliosa di portarli lei in chiesa per il battesimo alcuni suoi fratelli: Agnese, Luigino, la Celi, Agostino.... Il più delle volte era capitato nel pieno dell’inverno e così erano tutti avvolti in spesse coperte che li immobilizzavano al punto che ogni tanto Concetta aveva la sensazione che non respirassero e si fermava lungo l’erta per scoprirli e constatare che fossero ancora vivi… Agostino fu invece battezzato subito dopo Pasqua. Era allora tradizione che i genitori del primo nato in paese dopo che il Sabato Santo era stata benedetta l’acqua portassero un agnello in dono al parroco. Era un onore ed un diritto (od un ònere ed un dovere…) Quella volta toccava ai genitori di Agostino ma saltò fuori qualcuno che scompaginò le carte e si prese l’onore dell’agnello pasquale… I Tonon non la presero bene (o forse la presero bene…) ma non ci furono grosse polemiche, tutto finì lì.

Mamma Angela rimpianse sempre il fatto di non essere mai riuscita, lei che di figli ne aveva battezzati 12, a donare l’agnello. Tale onore toccherà al figlio Mario, molti anni dopo, in occasione del battesimo di Livio. La santola del battezzato donava poi a Concetta 5 lire perché per un mese provvedesse a lavare i panni del neonato. A quei tempi, infatti, era tradizione che questo fosse interdetto alla madre. Ricorda suor Maria che un anno con queste 5 lire andò a Conegliano, a piedi con la sorella Adele a comperarsi un vestito. Se lo ricorda bene quel vestito: era sgargiante di colori, fu il primo e l’ultimo della sua giovinezza. Concetta fu scolara della famosa maestra Gardin fino alla quarta elementare. La quinta, che allora non era obbligatoria e che si frequentava nelle scuole di San Fior, fu tenuta a superla in seguito da privatista (fu aiutata dalla maestra Talamini) perché così veniva richiesto a coloro che entravano nel Cottolengo. Fu quindi il momento del suo impegno in canonica, alle dipendenze della signorina Amelia, sorella di don Angelo. Un giorno si trovò da sola a preparare il pranzo per nove illustri professori che venivano da Venezia in sopralluogo alle bellezze artistiche della nostra chiesa. Concetta era molto preoccupata, le sembrava di non essere all’altezza. Alla fine disse che si sarebbe impegnata nel pranzo solo se fosse stato il fratello Nilo, allora chierico in Seminario, a servire in tavola. E così avvenne. Se la cavarono bene entrambi. Per don Nilo finì lì, per Concetta questa fu la prima di una lunga storia che sarebbe durata tutta la sua vita. A don Angelo subentrò don Giovanni Viol che si portò appresso la madre molto anziana ed apprensiva.

La sera questa chiedeva a Concetta di preparare con puntualità la cena, ma il parroco rientrava dal suo giro in parrocchia che aveva già cenato ora in una famiglia ora in un’altra. Una storia che tanti anni dopo si sarebbe ripetuta identica in un’altra canonica e con interpreti diversi. Concetta rientrava quindi a casa col buio e tanta paura: allora, infatti, ad illuminare la campagna desolata c’era, quando c’era, solo la luna. Ricorda suor Maria il campo solare nel ‘33 nell’asilo, organizzato dalla maestra Calissoni. Vi partecipavano sia i bambini di Castello che quelli di San Fior. Forse il motivo stava nel fatto che a Castello tiravano arie di collina. Era Concetta la responsabile della cucina: e così il suo destino cominciava a delinearsi in maniera inequivocabile. Era suo compito, terminata la giornata, anche quello di lavare i costumi con cui i piccoli si erano messi al sole (azzurro per i maschietti, rosa per le femminucce) ed in questo era coadiuvata dall’amica Maria Silvestrin. Poi andò a servizio dai signori Marcer a San Vendemiano, dal ‘36 al ’38. Di anno in anno maturava in Concetta, in maniera misteriosa, la sua scelta, l’unica della sua vita, prima incerta poi sicura e sempre più forte ed irresistibile: quella di votarsi alla causa del Cottolengo. Col tempo questa divenne la cosa in cima a tutti i suoi pensieri, non ve n’erano altre all’orizzonte. Nulla e nessuno l’avrebbero fermata. Di certo aveva contribuito a questa scelta la presenza, a cento metri da casa, delle quattro suore cottolenghine che gestivano l’asilo della parrocchia. Ma per entrare nella Congregazione allora non era sufficiente la vocazione: serviva anche il corredo. Era per questo che Concetta aveva preso servizio presso i signori Marcer, con i soldi guadagnati avrebbe potuto realizzare la sua vocazione. Ma nel ‘39, quando già stava programmando la sua partenza per Torino la campagna venne sconvolta da una devastante grandinata (il famoso tempestòn del ’39) che si portò via tutto. L’agricoltura fiorente di oggi non sa più cosa siano malattie della vite come l’oidio, la peronospora, il carbone del mais, la segale cornuta, il baco che diviene flaccido e s’affloscia senza produrre seta, le contagiose malattie del bestiame, il pollame e gli animali da cortile che muoiono fulminati dalle pestilenze. Ora, infatti, tali malattie o sono state debellate o vi si pone rimedio con una farmacopea adeguata. Non erano calamità necessariamente ricorrenti, né, quando si abbattevano, si riversavano tutte contemporaneamente; ma ne bastava una all’anno. E se moriva il maiale era una disgrazia immane. Erano anni duri, sono sempre stati anni duri per chi affida alla terra tutto il suo lavoro.

Ma forse il flagello più temuto poteva venire dal cielo: bastava una grandinata primaverile sull’uva in fiore e sulle foglie di gelso per vanificare in pochi attimi il duro lavoro di una intera annata. E non c’erano le assicurazioni contro la grandine. Soldi non ne giravano tanti allora sulle rive del Bianchin, dove i Tonon si erano trasferiti dopo aver lasciato la casa in borgo Gradisca. Gli unici venivano dalla vendita del vino cui i fittavoli, che si spaccavano la schiena a tirar fuori i frutti di una collina tanto bella quanto difficile da lavorare, erano costretti a rinunciare per tirar su quelle quattro palanche. Quei pochi soldi che Concetta aveva messo da parte per il corredo furono integrati nella magra economia di quella famiglia che aveva 12 bocche da sfamare (ai nove di quando dimoravano bas la riva de ‘a cesa si erano aggiunti Giorgio, Severino e Imelda). E se non bastasse dal Seminario di Vittorio Veneto ogni tanto arrivavano richieste di libri da acquistare per l’istruzione di don Nilo, allora chierico. Era la prima volta che Concetta doveva fare i conti con le bizze del cielo ed i libri di don Nilo. Non sarebbe stata l’ultima. Intervenne don Angelo una cui cugina, di Col San Martino, aveva cessato il suo servizio presso dei signori a Voghera ed era tornata in paese per sposarsi. Questi signori erano molto benestanti, disponevano di campagne ed allevamenti, e cercavano una persona a modo che non avesse grilli per la testa. Concetta era la persona giusta.

Raggiunse Voghera nel ‘39 e lì rimase ininterrottamente fino al ‘42, senza mai rivedere i suoi fratelli, i suoi genitori e le sue colline. Mamma Angela le scriveva per non farle pesare la lontananza e per raccontarle come andava in famiglia. Era il racconto di una desolante povertà. La padrona che apriva le lettere in una specie di censura non aveva cuore di farle leggere a Concetta. Si limitava a dirle che nella sua famiglia tutto andava bene e che stesse tranquilla. Ed intanto, mossa da pietà cristiana, inviava a Castello in anticipo le mensilità di Concetta. A Castello i soldi svanivano il giorno stesso del loro arrivo… Con il passare del tempo i signori di Voghera, che non avevano figli, si affezionarono a Concetta, una ragazza buona, irreprensibile, seria e fedele nel suo lavoro, ed espressero il desiderio che diventasse la loro figlia d’anima. Sarebbe stata una svolta per la sua vita, Concetta avrebbe potuto risolvere i problemi della sua famiglia oltre a quelli dei libri di don Nilo. Venne in quel periodo a trovarla la sorella Adele con il marito Giovanni, cui i signori di Voghera, sapendolo della stessa pasta di Concetta, proposero di rimanere in qualità di amministratore delle loro proprietà. Giovanni rifiutò asserendo di essere già impegnato nel suo lavoro. E poi mai si sarebbe staccato dalle sue amate colline o avrebbe rinunciato alla sagoma del costone di Santa Gusta che incombeva sulla sua Serravalle. Concetta non prese mai in considerazione la cosa: aveva altro per la testa.

A Voghera Concetta aveva ricevuto altre proposte. Il sacerdote davanti al quale si inginocchiava in confessionale l’aveva pregata di trasferirsi nella sua canonica per assistere la madre anziana ed ammalata. Le richieste si riproponevano ad ogni confessione a tal punto che Concetta cambiò confessore e cominciò a frequentare la chiesa dei Comboniani, i quali, venuti a conoscenza della sua vocazione, le chiesero di farsi suora nella loro congregazione… Ma intanto suor Ernesta Paolina, la superiora di Castello, le aveva scritto sollecitandola a tornare a casa per andare a Torino, con la velata minaccia che se non tornava subito se ne poteva stare via per sempre. Una volta a Castello, Concetta scoprì che altre tempeste, i famosi tempeston che periodicamente devastavano le colline del Bianchin, si erano mangiati i risparmi che in anticipo arrivavano da Voghera. Sembrava che qualcuno, qualche forza oscura facesse di tutto per farle cambiare idea, ma lei invece che arrendersi era sempre più convinta. E le tornava sempre in mente il momento in cui aveva capito che la sua scelta era irrevocabile. Era successo quando il signor Marcer, ingegnere ferroviario presso cui Concetta era a servizio, le aveva regalato due biglietti per Torino. Mai avrebbe potuto permettersi un viaggio in Piemonte. Nel viaggio con la superiora dell’asilo di Castello, Concetta aveva avuto occasione di entrare nella realtà della Piccola Casa del Cottolengo, una realtà fatta di grande sofferenza e di infinito amore. Aveva così deciso come sarebbe andata vestita un giorno e per tutto il resto della sua vita. Se fosse dipeso da lei, non sarebbe più ritornata a casa, ma quel giorno aveva anche incontrato la superiora della Congregazione cui aveva raccontato la sua vita e le sue intenzioni di farsi cottolenghina. Ma quando nel suo racconto era saltato fuori che c’erano 11 fratelli la superiora era stata perentoria. “Te ne torni a casa, Concetta, aiuti la tua mamma ad accudire i tuoi fratelli e solo quando sono tutti grandi vieni da noi”.

Fu ancora il parroco don Angelo ad aiutarla intervenendo presso i Conti Lucheschi di Colle che la prendessero a servizio nella loro dimora di Sesto Pusteria dove erano in vacanza da giugno a settembre. Questa era l’ultima occasione, ma bisognava che i soldi se li tenesse lei, che il tempestòn risparmiasse le colline del Bianchin, e che don Nilo non tornasse alla carica con i libri. Presso i Lucheschi a Sesto Pusteria prestava servizio anche la cugina Olga, responsabile del guardaroba. Concetta la misero in cucina. La cucina. A settembre la superiora scrisse ai Conti chiedendo di lasciare Concetta libera dal servizio, e lei fu felice di intraprendere col suo gruzzoletto il viaggio di ritorno. Sì, non era finita qui, c’era ancora di mezzo il viaggio di ritorno. Il conte la portò la mattina presto in macchina fino a San Candido, le fece il biglietto del trenino e la salutò. Concetta attese appartata, tenendo ben stretta quella valigetta in cui sembravano racchiusi tutto il suo futuro e le sue speranze. Lo attese invano quel trenino, perché nulla ruppe il silenzio abissale di quella stazioncina quella mattina di settembre. Ma eravamo in piena guerra con una situazione che dire drammatica è poco. E quando qualcuno annunciò che quel treno non sarebbe mai arrivato né partito comparve una donna che disse a Concetta di seguirla.

Camminarono in silenzio tutta la giornata costeggiando la montagna, Concetta dietro a quella figura che non si girava mai né mai le rivolse più la parola. E non sentì nessuna fatica, che le sembrava di volare, lungo quei sentieri sconosciuti. Partite alle otto da San Candido, alle sei di sera erano a Cortina, e quando Concetta fece per ringraziarla questa era già svanita. Svanita nel nulla come dal nulla era comparsa. E suor Maria si chiede ancora oggi chi e perché. Ma non era finita qui: non c’era alcun treno in partenza da Cortina, solo una tradotta carica di militari. Concetta riuscì ad impietosire un vecchio ferroviere che, dopo aver parlato con i militari, le disse di stare tranquilla e la fece salire. E così, come forse non era mai successo prima, una ragazza di 23 anni che scendeva a valle per farsi suora viaggiò da sola in una tradotta piena di soldati che andavano a fare la guerra chissà dove. Concetta ricorda solo alcuni particolari di quel viaggio fatto in piedi vicino alla porta, in disparte. Forse i militari si erano messi a cantare le tristi nenie alpine della guerra o forse i canti della naia per allontanare la tristezza, forse maledivano la guerra, la naia e Mussolini… lei non lo ricorda, tutta impegnata com’era a tenersi in equilibrio vicino a quella porta e soprattutto a tenersi stretta la sua preziosa valigia. Suor Maria ricorda benissimo però che fuori infuriava un temporale ed il vento sconvolgeva il bosco e faceva paurosamente ondeggiare il treno. Forse che il turbine stesse squassando anche la pianura? “Signorina ha paura?” le chiese un soldato… lei non aveva paura, era terrorizzata.

Unica ragazza in mezzo ad un esercito, si sentiva come una foglia in balia della tempesta. E pregava. Alle due di notte il treno si fermò a Vittorio Veneto, scesa lei, la tradotta ripartì immediatamente e la stazione ripiombò nel silenzio. Concetta prese il corto viale, che scendeva in città, solo silenzio e buio, né luci né macchine. Una pallida luna illuminava a tratti le strade piene di foglie e rami strappati dagli alberi, a dire che la città era appena stata devastata dalla tempesta, la luna che ogni tanto compariva tra le nubi che si stavano dileguando dopo aver scaricato il turbine. Concetta si ritrovò smarrita, sapeva solo che la sorella Adele, da poco sposata, abitava sopra Serravalle, ma non c’era un segno di vita in quella notte oscura. Poi dall’uscio aperto di una casa come per miracolo comparve una fioca luce, Concetta si fece coraggio ed entrò. Un uomo le disse che per trovare Giovanni Da Re doveva bussare al portone vicino a quello dei frati di Santa Giustina. Santa Giustina era molto oltre Serravalle. Adele non voleva aprire quella porta, diceva che mai e poi mai avrebbe aperto ad una sconosciuta, non riusciva a capire chi e perché alle tre di notte stesse bussando ripetutamente alla sua porta. “Sono Concetta, aprimi, sono tua sorella”. “Ma cosa fai a quest’ora?”, “Aprimi che poi te lo spiego”. Chiarito ogni equivoco, Concetta poté mangiare e dormire e la mattina presto chiese alla sorella che le prestasse la bici per tornarsene a Castello. Adele la invitò a rimanere per riposarsi. Adele non poteva capire la fretta della sorella che scrutava preoccupata il cielo. Quella stessa mattina, prima che le nuvole si facessero di nuovo nere, in un negozio di Conegliano acquistò tutto il suo corredo, e prima che il campanòn del dòmo de Conejàn suonasse mezzogiorno, lei era di ritorno a casa. Il corredo prevedeva anche l’abito nero da suora che fu confezionato da Linda Da Dalto, una sarta vicina di casa. Il 19 ottobre 1942 prese il treno a Conegliano con la superiora suor Paolina, che approfittava del viaggio a Torino per delle cure. Raggiunsero la stazione con la macchina di Poser, il primo ed ultimo servizio di taxi che si ricordi nella storia di questo paese. A Conegliano erano ad attenderla i cugini di Costa.

Nei giorni precedenti Concetta aveva fatto il giro dei parenti per salutarli tutti, quelli della collina coneglianese avevano voluto ricambiare il saluto incontrandola alla partenza. Partite alle nove di sera, scesero a Torino a mezzogiorno, e lì furono ospitate nel Probandato del Cottolengo, assieme a quattro ragazze milanesi incontrate in treno. Il giorno dopo le tagliarono le trecce, quelle trecce che erano il look di Concetta, avendola accompagnata fin da bambina, e le misero la cuffia bianca. La sera stessa al suono lugubre di una sirena tutte si ritrovarono in un sotterraneo che fungeva da rifugio. Eravamo in piena guerra e le grandi città cominciavano ad essere bersagliate dai caccia alleati. Suor Paolina, spaventata, se ne tornò subito a casa, rinviando le sue cure. La Madre generale disse alla giovane probanda che era meglio se tornava a Castello anche lei in attesa di tempi migliori. Concetta rispose che a casa non sarebbe più tornata. Ormai il passo l’aveva fatto: aveva tanto aspettato quel giorno, lo aveva sognato, desiderato, per quel giorno aveva lavorato e combattuto… quel giorno era arrivato e adesso lei era felice. Sentiva peraltro dentro di sé una tranquillità, una serenità ed una sicurezza che non erano riusciti a scalfire né il lugubre sibilo dell’allarme, né il fragore delle bombe, né la guerra con tutte le sue incognite, né la lontananza da casa, dalla famiglia, dal paese, né il cigolio delle forbici che l’avevano privata delle trecce. Aveva raggiunto quella meta che da anni era in cima a tutti i suoi pensieri, ed ora era felice. Ogni sera alle 8.30 suonava l’allarme seguito puntualmente dal rombo degli aerei. Per un mese Concetta collaborò nella Piccola Casa ad accudire gli ammalati, poi fu impiegata nelle pulizie delle stanze dimora dei sacerdoti del Cottolengo. Era un impegno massacrante, un genere di lavoro cui la compagna, una giovane milanese, non era abituata. L’amica piangeva, Concetta la consolava e la rincuorava a non disperarsi: avrebbe provveduto lei ai lavori più faticosi. Nel luglio 1943, cento suore probande partirono da Torino alla volta di Colcavagno.

Il viaggio avvenne in treno, su due vagoni bestiame dove fuori stava scritto “cavalli 8, uomini 40”. Le giovani aspiranti avevano ricevuto come pacchetto viveri-viaggio … una caramella, perché tutto era rimasto sotto le macerie del bombardamento della sera prima. E sotto quelle macerie era rimasto anche il famoso corredo di Concetta, quel corredo che aveva inseguito per anni e ne aveva più volte ritardato la partenza. Partenza alle otto, arrivo a Colcavagno alle quattro del pomeriggio, sempre con la paura dei bombardamenti. Colcavagno nessuno l’aveva mai sentito nominare, si pensava ad un paese appena fuori Torino. Lì furono accolte con grande calore, le consorelle le rifocillarono abbondantemente offrendo loro, tra l’altro, la birra che allora veniva prodotta nel castello. Quando proposero a Concetta di studiare da maestra, lei confessò la sua scarsa propensione allo studio. Allora la misero provvisoriamente in cucina. Immaginiamo che probabilmente la madre superiora le avrà detto qualcosa del genere, magari in piemontese: “Concetta, ne, prova intanto a stare un po’ in cucina, ne, che poi vediamo ne…”. In quella cucina suor Maria è rimasta ininterrottamente per 66 anni! Sarebbe cosa da mettere nel guinness dei primati… ma essendo il guinness dei primati pieno di stupidaggini, indegne del confronto con questa, non lo faremo mai. Il 17 gennaio ‘44 nel viaggio a Torino per la vestizione le probande furono ospitate su un camion bestiame che venne fermato lungo il percorso dai Tedeschi all’ordine di “tutte giù”. Ma quando videro che alcune giovani stavano male, sconvolte per i sussulti del camion, subito le rifecero partire, quasi a liberarsene, convinti che si trattasse di un gruppo di povere ammalate. Concetta prese il nome di Suor Maria del Santo Bambino che era il nome della superiora di Colcavagno, appena morta, cui era particolarmente affezionata.

Il rientro avvenne col treno fino a Chivasso e da Chivasso a Colcavagno con carrozze trainate da cavalli. Dopo un anno (intanto suor Maria aveva prese pieno possesso della cucina) di nuovo a Torino per la professione. Era il 21 gennaio ’45 e questa volta fu un viaggio a piedi lungo 12 ore (in piena guerra, non c’erano più né treni, né carri bestiame né carrozze trainate da cavalli) a piedi in mezzo alla neve con partigiani e tedeschi che si affrontavano ovunque ormai a viso aperto e le mitragliatrici che crepitavano. Per evitare incontri pericolosi, lasciata la strada camminavano nei campi, ma nemmeno la campagna era risparmiata delle mitragliatrici e spesso le sorelle dovettero buttarsi sulla neve per evitare i colpi che sembravano lambirle, loro che dalla guerra erano lontane anni luce e desideravano solo arrivare alla Piccola Casa per consacrarsi definitivamente al Cottolengo. Suor Maria aveva superato mille difficoltà per coronare il suo sogno, ora sembrava mettersi di mezzo anche la guerra. Ma il giorno dopo fu il giorno più bello della sua vita. Era per quel giorno che aveva tanto lottato, lavorato e sofferto e non aveva mai ceduto. Tutto quello che aveva passato, quel giorno divenne flebile ricordo e perfino i sibili della mitragliatrice in mezzo alla neve del giorno prima le sembravano ora solo come i suoni scomposti degli strumenti accordati dagli orchestrali prima del concerto e che poi si ricompongono improvvisamente nella bellezza di un’unica armonia. Nell’aprile del ‘45 arrivarono in castello 300 Tedeschi, cattivi ed arroganti, la maggior parte erano SS, in cerca di partigiani. Intenzionati a stabilirsi nel castello, cominciarono a buttar giù dalle finestre i banchi delle aule dell’asilo, provocando la reazione indignata di suor Immacolata che fu subito messa al muro. Suor Maria intervenne con decisione, spiegando all’interprete che avrebbero provveduto le suore a liberare le aule. E le mitragliatrici già puntate contro suor Immacolata si abbassarono. E fu compito di suor Maria accompagnare i Tedeschi, che la seguivano col mitra spianato, in tutte le stanze, aprendo ogni porta alla ricerca di partigiani nascosti. La superiora aveva chiesto che fucilassero solo lei se avessero trovato qualcuno, ma i Tedeschi continuavano a dire a suor Maria che se fosse stato scoperto qualche nascondiglio sarebbe stata lei ad essere falciata per prima.

Suor Maria apriva le porte senza sapere cosa avrebbe trovato, l’interprete continuava a dirle di camminare e non girarsi mai, i soldati sembravano furie (“schnell, schnell”) lei si raccomandava l’anima a Dio. Partigiani non ne saltarono fuori, ma per suor Maria l’incubo non era finito perché toccò a lei preparare la cena a tutto il reparto. E fu la cena più difficile della sua vita. Viveri ce n’erano in abbondanza perché i Tedeschi avevano fatto razzia in tutto il paese, minacciando e pestando a sangue chi si era opposto. Lei cucinava con il mitra puntato di un soldato tedesco che voleva vedere cosa finiva nella pentola, sale o condimento, ed ogni volta verificava e chiedeva minacciosamente di cosa si trattasse per paura che fosse veleno. Quella sera mangiarono solo i Tedeschi, per le suore non ci fu cena, anche perché il terrore non avrebbe loro permesso di sedersi ad un tavolo. In seguito suor Maria venne a sapere che c’erano i partigiano nel castello, nascosti nei cunicoli scavati sotto il cortile e proprio all’arrivo dei Tedeschi erano scappati sopra i tetti della case di Colcavagno. 66 anni in cucina, dal luglio ‘43 al gennaio ’09: e suor Maria ne è fiera, un impegno umile e nello stesso tempo difficile e pesante, spesso complicato da presenze incredibilmente numerose. Una vita consumata in un ambiente solo pentole, fumo e vapori, a volte venti ore al giorno. Ma suor Maria si dice orgogliosa di aver preparato il cibo a così tante persone. Lo ha preparato per i bambini dell’asilo ed agli anziani ospiti nella casa di riposo del castello, per le suore che venivano numerose per gli esercizi spirituali, per sacerdoti, parroci, vescovi, amici, parenti, nipoti, ospiti in villeggiatura, per colonnelli, perfino per un reperto di SS tedesche, ed anche attori ed artisti. Ricorda a tal proposito le riprese nel 2004 di un film sul Cottolengo. Per suor Maria costituirono un momento straordinario, e non tanto per la novità del set cinematografico che aveva coinvolto tutto il castello, quanto perché le riprese le narravano la vita del Santo Cottolengo come non l’aveva mai letta ed aveva in qualche modo potuto rivivere la nascita della sua Congregazione. Suor Maria e suor Onorina facevano un po’ parte della troupe se è vero che nelle pause della lavorazione gli attori si accomodavano in cucina per il caffè da loro preparato. Si era creata una grande amicizia e le due suore erano diventate le mascotte della troupe. Ad esse si era particolarmente affezionato Massimo Wertmuller, che nella pellicola interpretava San Giuseppe Benedetto Cottolengo.

Suor Maria ricorda i lunghi colloqui con Claudia Koll, che nel set sembrava rivivere la sua conversione in modo particolare ed era affascinata dallo stile di vita di quelle due umili ed anziane sorelle. Quando a mezzogiorno le riprese venivano interrotte per il pranzo in un ristorante della zona, spesso la Koll chiedeva di sedersi a tavola con suor Maria e suor Onorina. Ricordi che si perdono nel tempo. Nel ‘55 dopo la morte della mamma Angela, il padre Luigi cominciò a passare l’estate in quel di Colcavagno. Lì aiutava suor Prassede e suor Rosanna nel giardino e nell’orto e nei lavori della stalla, ma partecipava volentieri alla vita del castello intrattenendosi con gli ospiti che lì trascorrevano le ferie. Il più illustre era il famoso “colonnello” che per anni ed anni onorò le suore della sua presenza. Era lui a dormire nella camera nobile del castello. Nelle numerose partite a bocce con Luigi, il colonnello era spesso perdente, e siccome sembrava mal digerire le sconfitte la moglie dovette intervenire presso suor Maria perché convincesse il padre a lasciar vincere il marito. Anche perché il colonnello era un ospite pagante.

Alcune estati Luigi si portò appresso le nipoti Francesca, Luigina e Fernanda, che ricordano quelle come le vacanze dell’abbondanza. Suor Maria il pomeriggio le mandava spesso nella cappella del castello a pregare al posto suo, non trovando lei il tempo perché troppo occupata in cucina, poi preparava loro dei panini alla cioccolata che a Castello Roganzuolo non s’erano mai visti sia come abbondanza che come qualità. Le nipoti ricordano particolarmente la cioccolata bicolore, ma anche le pesche che si gustavano a Colcavagno era molto grosse, succose e colorate, mentre quelle delle colline del Bianchin erano piccole e non particolarmente dolci.

Piano piano Colcavagno si spopolò ed anche la vita nel castello si spense. Lì dove un tempo c’era un fiorire di vita e di attività il silenzio si portò dietro anche un po’ di tristezza. Se ne andarono una alla volta anche le suore e forse era scritto da qualche parte che l’ultima a rimanere fosse proprio suor Maria. Con gli anni era diventata piemontesa a tutti gli effetti, ora è ritornata veneta nel suo Veneto, in quella città che tutto il mondo ci invidia. Ma lasciare Colcavagno non è stato facile. Ci racconta che dalla sua camera vede il campanile di San Marco e la sera mentre osserva gli aerei che atterrano al vicino aeroporto di Tessera si accorge che sta pensando a cosa ha lasciato in Piemonte. Un filo invisibile la lega ancora a quel castello, alle persone di Colcavagno. Una signora del paese ci ha detto che suor Maria, andandosene dal castello, si è portata via la sua giovinezza, un’altra che con suor Maria ha perso una mamma. Ecco cosa ha potuto combinare un’umile suora restando per 66 anni in una cucina. Dal Piemonte la vengono a trovare (primo fra tutti l’amatissimo don Ottavio) e le telefonano spesso per salutarla e sentire come sta. Lei, com’è nel suo stile, è felice di parlare con loro, li ricorda tutti e prega per tutti. Spesso all’altro capo del telefono la voce si interrompe, rotta dalla commozione. E suor Maria non ha ancora capito perché.

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PS1: Tra i più bei ricordi di suor Maria, il dono ricevuto dai suoi fratelli (don Nilo in testa) in occasione del cinquantesimo della sua Professione: tre rose d’oro. Tre rose d’oro: un dono che un tempo era riservato solo alle regine. Tre: a simboleggiare le tre Virtù Teologali. D’oro: per dire, senza averlo mai detto una sola volta, che è d’oro il cuore di quest’amata sorella.

PS2: La vita di suor Maria è stata condizionata dai tempestòn che si abbattevano sulle colline del Bianchin di Castello Roganzuolo e distruggevano il raccolto, e dai libri di don Nilo che studiava in seminario. In pratica fu suor Maria a sponsorizzare gli studi del fratello, anche se il termine “sponsor” sarebbe stato inventato 60 anni dopo. Questo opuscolo è stato voluto e sponsorizzato da don Nilo…

PS3: Succede nello sport. Quando uno ha lasciato un segno nella squadra per il suo attaccamento e per quanto quella squadra ha amato e portato in alto, il suo numero di maglia viene ritirato per sempre. Succede nello sport ed a Colcavagno, dove nella piccola chiesa della parrocchia nessuno si siede più nei posti del banco che veniva occupato ogni domenica da suor Maria e suor Onorina.

Suor Maria (Concetta) Tonon: un ricordo lungo 90 anni
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