Che succede dopo il sì al Referendum
L'editoriale del direttore don Alessio Magoga.
Il referendum del 22 ottobre è un evento che lascerà un segno. Soprattutto in Veneto. Che il 57 per cento degli aventi diritto si sia recato a votare è un dato che costringe tutti ad una riflessione, il più possibile pacata: se ne sono resi conto anche ai livelli nazionali. Le ragioni del successo del sì sono molteplici.
L'esito del referendum deve molto all’appeal dell’attuale governatore del Veneto, Luca Zaia, che è riuscito nel tempo a costruire un solido consenso attorno alla sua figura, ben radicato nel territorio trevigiano e in tutta la Regione. Una seconda motivazione si deve al fatto che è mancato un reale antagonista: poca voce in capitolo e poca visibilità hanno avuto i comitati per il no o per l’astensione. Il Pd ha mostrato poca unità, facendo passare due diversi messaggi: un sì a livello regionale (anche se non condiviso da tutti) e un no a livello nazionale (anche se non espresso in modo del tutto esplicito). Le altre fazioni partitiche – compreso il Movimento 5 Stelle – hanno appoggiato il sì più o meno calorosamente.
Un sì convinto è venuto dagli indipendentisti veneti che hanno visto in questo referendum il primo passo verso la separazione dall’Italia: un dato, questo, che non va sottaciuto.
Al di là delle dinamiche politiche, ci sono anche altre ragioni che stanno alla base della vittoria del sì. La richiesta di maggiore autonomia, almeno così com’era formulata in termini molto generali nel quesito referendario, è stata vista anche da chi non ha proposto il referendum come un bene da perseguire. Autonomia significa “capacità di regolarsi secondo le proprie leggi e norme”: chi non vorrebbe più autonomia (e non solo a livello di regione)? Storicamente la forma centralizzata dello Stato italiano è stata una scelta – e come tale modificabile – che ha preso corpo all’indomani dell’unificazione d’Italia e si è accentuata durante il ventennio fascista. Esistevano anche altre possibilità, come ad esempio quella di uno Stato federale che affidasse maggiori poteri alle regioni. Don Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare, nel 1921 auspicava “un più largo decentramento delle unità regionali”, all’interno di un quadro in cui la regione era intesa “come un’unità convergente, non divergente, dallo Stato”.
A questo desiderio legittimo di maggiore autonomia va aggiunta una volontà di riscatto, di battere un colpo, di esprimere un disagio, di manifestare un’insofferenza... Molti veneti domenica scorsa hanno voluto esprimere attraverso il referendum non solo un sì A A all’autonomia, ma anche un no ad un certo modo di operare dello Stato centrale, percepito – a torto o a ragione – come inefficace e fonte di ingiustizia, di sperequazione economica e di sprechi. Quest’ultimo aspetto – la questione economica – ha giocato e gioca un ruolo molto importante in tutta la faccenda, anche in virtù del continuo confronto con le due regioni a statuto speciale confinanti: il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia. Attraverso il voto referendario i veneti hanno voluto esprimere anche un desiderio di rivalsa contro una certa politica nazionale che ha marginalizzato il Veneto: pochi in questi ultimi decenni i veneti che contavano realmente a Roma (ma è solo colpa di Roma?). Ma è stato anche un voto contro un certo immaginario collettivo che designa il cittadino veneto come uomo bonario e laborioso, certo, ma anche un po’ ingenuo (per non usare l’epiteto utilizzato da Toscani). Anche per questo la vittoria del sì è stata salutata orgogliosamente da tanti veneti come una “tappa storica”.
Ed ora? La parte più difficile comincia adesso. La Lombardia sembra aver scelto una via moderata e un approccio di dialogo costruttivo con il Governo. In Veneto invece, nonostante le rassicurazioni di Zaia, sembra si voglia alzare la posta in gioco e conseguentemente i toni del dibattito. La Giunta regionale ha immediatamente presentato dei disegni di legge per avviare il processo di riconoscimento del Veneto come regione a statuto speciale e per chiedere al Governo la competenza su tutte e 23 le materie indicate dalla Costituzione, nella prospettiva – a detta di Zaia – di poter gestire i 9 E decimi del gettito fiscale. Richieste che appaiono esorbitanti, se non addirittura irricevibili dal Governo.
Dei ragazzi che compiono i diciott’anni si dice che sono diventati “autonomi” e si chiede loro maggiore responsabilità. Ci si aspetta che il percorso avviato col referendum sappia tenere insieme la legittima richiesta di autonomia e il senso di responsabilità, senza appiattirsi su forme di egoismo particolarista o di vittimismo rivendicazionista: soprattutto senza uscire dall’alveo dell’unità nazionale. Se il Veneto è qualcosa di diverso da quella macchietta con cui talvolta è raffigurato, come riteniamo, è tempo che lo manifesti ma senza derogare ai principi di sussidiarietà e di solidarietà che fanno parte – anch’essi – della sua importante tradizione.
AM
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