DIRITTO, FACOLTÀ O DRAMMA?
L'editoriale del direttore, don Alessio Magoga
L’accesissimo dibattito di questi giorni sul cosiddetto “diritto all’aborto” negli Stati Uniti tocca una questione altamente sensibile, che riverbera in modo importante in Europa ed ovviamente anche in Italia. Vale la pena ricostruire, seppur in breve, il quadro in cui si è accesa la querelle. Una sentenza della Corte suprema americana del 1973 ha dichiarato legale l’aborto fino a quando il feto non è considerato “vitale”, cioè capace di sopravvivere al di fuori del grembo materno. Generalmente ciò avviene verso il settimo mese (28a settimana), ma in alcuni casi può verificarsi anche al sesto mese (24a settimana). La sentenza del 1973, pertanto, fissa la legittimità del ricorso all’aborto sino al sesto o al settimo mese di gravidanza, anche in assenza di problemi di salute della donna e del feto, e permette che il termine possa essere ulteriormente prorogato, in caso di pericolo per la salute della donna. La sentenza del 1973, prima della quale ogni Stato aveva una propria legislazione in materia, è denominata “Roe versus Wade” (“Roe contro Wade”), dal nome delle due parti in causa: Roe è il nome (fittizio) della donna che chiedeva di avere il diritto ad abortire, mentre Wade è l’avvocato dello Stato del Texas che, in base alla legge di quello Stato, glielo negava.
Nel 2018 lo Stato del Mississippi chiede che sia approvata una legge che vieti di abortire dopo la 15a settimana (quarto mese) di gravidanza, salvo casi di emergenza medica o di anomalie fetali. A tale proposta, la Jackson Women’s Health Organization, una clinica che pratica l’interruzione di gravidanza, presenta un esposto per bloccare la legge del Mississippi, perché la ritiene una violazione della sentenza federale del 1973, la famosa “Roe versus Wade”. Il procuratore generale del Mississippi chiede alla Corte suprema di valutarne la legittimità e nasce così la controversia “Dobbs versus Jackson Women’s” (“Dobbs contro Jackson Women’s”): Dobbs è il “ministro” della salute del Mississippi e Jackson Women’s è la clinica che ha presentato l’esposto. Avviata nel 2018, la controversia si è conclusa con la sentenza emessa dalla Corte Suprema lo scorso 25 giugno, la quale – contrariamente a quanto veicolato da varie fonti – non vieta l’aborto “sic et simpliciter”: se, da un lato, afferma effettivamente che l’aborto non è un “diritto costituzionale”, dall’altro affida ad ogni singolo Stato federale il compito di regolamentarlo secondo la propria legislazione (più o meno restrittiva – questo va detto – a seconda dell’orientamento politico prevalente in quello Stato). “L’autorità di regolare l’aborto – si legge ancora nella sentenza – torna al popolo ed ai rappresentanti eletti”.
Vista la reazione dell’opinione pubblica americana (e non solo), sarà ora da vedere quale possa essere il destino della sentenza dello scorso giugno e della stessa Corte suprema. Sebbene l’ordinamento legislativo italiano sia molto diverso da quello statunitense e, per quanto riguarda l’interruzione volontaria della gravidanza, faccia capo alla nota legge 194/78, il dibattito d’Oltreoceano pone degli interrogativi seri anche in casa nostra. Si pone con urgenza la domanda, infatti, se ha senso rivendicare l’aborto come un “diritto” al pari di quelli sanciti dalla Costituzione o dalla Carta dei diritti fondamentali dell’uomo, come vorrebbero tra l’altro anche alcune forze politiche a Bruxelles. Si può parlare davvero di un “diritto costituzionale” all’aborto? Non sarebbe più corretto parlare di una “facoltà” concessa, come una sorta di “male minore”, e solamente a determinate condizioni? La sentenza della Corte suprema dello scorso giugno – ma in realtà anche la legge 194 – si muove su questo secondo versante. Inoltre, davvero un feto, sino alla 28a settimana, può essere considerato semplicemente come un oggetto privo di qualsiasi forma di diritto? Ed attenuare o addirittura misconoscere il tratto problematico, ed anche drammatico, dell’aborto, come di fatto sta avvenendo, è davvero rispettoso del vissuto della donna e delle giovani generazioni? A nostro avviso, il diritto che va davvero salvaguardato e riconosciuto come “costituzionale” è, invece, quello alla vita: garantire ad ogni donna la possibilità di portare a termine felicemente la propria gravidanza, fornendo a lei ed al nascituro le condizioni economiche e psicologiche necessarie perché questo si realizzi. È quanto i Centri di aiuto per la vita – ed anche la nostra “Mater Dei” di Vittorio Veneto –, insieme a diversi consultori, stanno cercando di fare ormai da decenni.
Alessio Magoga
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