E Renzi tira dritto
L'editoriale del direttore don Giampiero Moret
Autunno caldo, anzi rovente. L’esca è stata accesa con la carica della polizia contro gli operai di Terni che manifestavano a Roma per la salvaguardia dei loro posti di lavoro e ora la protesta sta accendendosi in varie parti del Paese. Il segretario della Fiom Landini ha già programmato due scioperi, uno al nord e uno al sud, per protestare contro il patto di stabilità all’esame del Parlamento in questa settimana e soprattutto contro il Jobs Act, la legge delega di riforma del lavoro, anch’esso in arrivo alla Camera dei deputati dopo l’approvazione del Senato. Si prepara uno sciopero generale della Cgil per i primi di dicembre. E Renzi che fa? Renzi tira dritto. Si mostra tenacemente sicuro della strada intrapresa, forte del consenso ancora alto che gode nel Paese (benché in calo) e convinto che queste manifestazioni non saranno altro che le solite liturgie sindacali che gratificano chi le promuove, ma incapaci di frenare l’azione del governo. Renzi ostenta sicurezza, ma il percorso su cui è incamminato il Paese non è così sicuro e chiaro. Dal punto di vista delle forze politiche il governo Renzi sembra solido. Non esistono forze che possano attualmente insidiarlo, sia all’interno del suo partito sia da parte degli altri partiti. Ma dal punto di vista sociale la situazione non è per niente tranquilla. La crisi economica continua a far strage senza che ci siano segnali evidenti di interruzione della caduta. Il lavoro è la bomba insidiosa che può far saltare tutto. IIl disagio sociale per mancanza di lavoro sta crescendo e diventando dirompente. Sul lavoro Renzi si gioca tutto. È il buco nero che può ingoiarlo. Per farvi fronte il presidente del Consiglio ha inaugurato una diversa strategia di rapporto con le forze sociali e ha architettato il suo progetto di riforma. La nuova strategia proclama la fine della concertazione. Il premier l’ha dichiarata in maniera ruvida dicendo: “Io con il sindacato non tratto”. È una svolta notevole.
La prassi consolidata da molti anni è che i problemi del lavoro, ma anche i più acuti problemi sociali, venivano affrontati mediante faticose contrattazioni tra sindacati, rappresentanti dell’industria e governo. Era la concertazione, cioè accordi che il governo si impegnava poi di tradurre in leggi. Ora Renzi afferma che per la soluzione dei problemi non tratta con le aggregazioni sociali, ma con le forze politiche del Parlamento che rappresentano i cittadini. In linea di principio l’affermazione è ineccepibile, ma nella realtà non è possibile mantenere questa rigida distinzione. E anche principio importante che colui che governa debba essere attento e in stretto contatto con la società civile di cui i sindacati sono parte cospicua. Può darsi che i sindacati in questi anni abbiano monopolizzato la rappresentanza civile e abbiano esorbitato nel loro compito, ma rappresentano pur sempre la componente sociale del lavoro dipendente che è la più importante. Una loro drastica contrazione può portare a tensioni sociali disastrose per il Paese. Su questo versante Renzi sta tirando la corda in maniera indebita e pericolosa. La riforma del lavoro del Jobs Act. È un disegno di legge delega e perciò formulato solo nelle sue linee generali che dovranno essere poi concretizzate nei decreti attuativi.
Quindi è difficile valutarne la portata e gli effetti. Però un punto è ormai chiaro ed è quello su cui il governo non vuol cedere: il famoso articolo 18. Si è detto che è un tabù, che riguarda solo una parte minoritaria dei lavoratori, che non risolve il problema della mancanza di lavoro. Può essere vero. Ma la modifica che si vuole attuare rappresenta un cambio di rotta. Cade l’obbligo di reinserimento per i licenziamenti, anche individuali, che hanno alla base un motivo economico. Quando l’azienda è in difficoltà, quando un lavoratore non rende, quando non è all’altezza del suo compito può essere licenziato e riceverà solamente un indennizzo proporzionato agli anni di lavoro. Qui si indebolisce sostanzialmente la solidità e la sicurezza del posto di lavoro. Si dice che la dinamica produttiva è cambiata e che si deve puntare su un lavoratore che abbia pluricapacità di lavoro per cui venuto meno un posto di lavoro, può facilmente trovarne un altro. Sì, ma questi sono sogni riguardanti un futuro che è ancora al di là da venire. Ora, in realtà i posti di lavoro sono scarsi e perso uno è difficilissimo trovarne un altro. Se è vero che la nuova economia ha bisogno di maggiore flessibilità, questa deve andare però di pari passo con l’effettiva sicurezza di abbondanza di posti di lavoro. La chiamano flexicurity. Da noi ancora non ce n’è traccia. Il Jobs Act sarà la formula giusta per realizzarla? Ce lo auguriamo.
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