UN VIAGGIO CHE RESTERÀ NELLA STORIA
L'editoriale del direttore don Alessio Magoga
Questa volta quanti avanzano critiche nei confronti di papa Francesco non possono che restare in silenzio, magari pieni di stupore e di rispetto. Mi riferisco al suo viaggio in Iraq, conclusosi lunedì scorso: un’altra pagina di questo Pontificato che resterà nella storia, come la visita a Lampedusa, l’apertura della Porta Santa a Bangui nella Repubblica Centrafricana, la preghiera davanti al sagrato di San Pietro vuoto, il 27 marzo del 2020... Senza dubbio è stato un viaggio faticoso e difficile, auspicato da Benedetto XVI, desiderato ardentemente da Giovanni Paolo II e attuato da un suo successore, quello che certi critici considerano il più lontano da Wojtyla e che, invece, si rivela essere in profetica sintonia con i suoi predecessori.
Papa Francesco è andato in un Paese a pezzi, segnato da contraddizioni e tensioni fortissime, strutturalmente insicuro e in preda ad una grave crisi economica, sconvolto dalla guerra, dal terrorismo e dal passaggio dell’Isis. Un Paese nel quale i cristiani – insieme ai musulmani moderati e ad altre minoranze religiose come gli yazidi – sono stati duramente perseguitati. La visita di papa Francesco si è rivelata, innanzi tutto, proprio come una “carezza” per loro – così è stata definita –: un incoraggiamento e un segno di speranza per questa comunità cristiana che ha sofferto e continua a soffrire molto, ma che è capace di grande dignità e di una straordinaria testimonianza evangelica. A quanti rimproverano papa Francesco di non prestare, secondo loro, sufficiente attenzione ai cristiani perseguitati nel mondo qui è stata data una risposta forte e chiara.
Nei luoghi in cui ebbero origine le tre grandi religioni monoteiste, papa Francesco ha ribadito che “siamo tutti fratelli”, discendenti dello stesso padre Abramo, che proprio dall’Iraq molti secoli fa iniziò il suo cammino verso la Terra promessa. Ha affermato nel modo più nitido possibile che «Dio è il Dio della vita e che non è lecito uccidere nel suo nome». All’Islam integralista ha mostrato – con parole e opere – il volto della mitezza, del dialogo e della fratellanza. Forse è proprio questa la modalità più appropriata per togliere al terrorismo “la terra sotto i piedi” e svuotare dal di dentro le ragioni dell’odio contro l’Occidente. Non la via delle bombe e della guerra, quindi, contro il cui commercio il Papa ha riservato dure critiche.
La visita e le parole di Francesco, incentrate sul valore della fratellanza tra tutti gli uomini, sono un forte appello volto ad abbattere muri e a gettare ponti. Non basta questo per cambiare situazioni di odio che si sono radicate in decenni, certo. Ma questo è quello che il Papa poteva fare e lo ha fatto con grande determinazione: i gesti hanno una loro potenza e possono – come ricorda lui stesso – “avviare processi”. È proprio quello che tutti dovrebbero sperare per l’Iraq e per tutto il Medio Oriente: un futuro di pace, “sperando – come Abramo – contro ogni speranza”. La visita del Papa in Iraq, però, interpella anche le nostre chiese d’Occidente e mostra in modo inequivocabile che cosa si intenda per “chiesa in uscita”. Non possiamo più far finta di non saperlo.
Lo stile, che papa Francesco propone, richiede coraggio e domanda di sapersi assumere dei rischi: non era affatto scontato che in questo complicato viaggio tutto andasse per il meglio. Dobbiamo allora chiederci che cosa voglia dire tutto questo per la vita di fede di ciascuno di noi. E cosa significhi per le nostre parrocchie e per le nostre comunità cristiane. La concreta pratica del dialogo interreligioso, ad esempio, sembra non essere più opzionale nemmeno nelle nostre terre. Perché – come ha ricordato qualcuno – non basta applaudire il Papa o citarne i discorsi. Bisogna anche imitarlo.
Alessio Magoga
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