LETTERATURA: intervista al poeta Daniele Mencarelli sulla via della croce
La rinascita che passa per il dolore
“La croce e la via”, ovvero una doppia Via Crucis che affianca la storia d’un uomo ambizioso e assetato di vittoria a quella di Gesù Cristo sul Calvario, rivisitata con grande sensibilità e indicata come la “via”. In prossimità della Settimana Santa, è utile soffermarsi sull’ultimo libro del poeta e scrittore Daniele Mencarelli, conosciuto al grande pubblico per due romanzi toccanti: “La casa degli sguardi” del 2018 e “Tutto chiede salvezza”, vincitore del Premio Strega Giovani 2020. Nella prima parte, “La croce”, Mencarelli racconta in quattordici stazioni in prosa la vicenda d’un manager che mira al successo e si dedica all’“arte del dominio, perché vivere è schiacciare”, che s’impone e afferma “Io sono l’unico, il più grande”, salvo poi arrivare ad un dubbio esistenziale: “Perché la vittoria non colma?”.
Le quattordici stazioni della Passione di Gesù, descritte da Mencarelli in poesia, mettono in luce una vicenda del tutto diversa. Gesù che affronta il dolore ed il proprio sacrificio senza alcun astio, arrivando a chiedersi: “Se io sia al mondo il primo a soffrire di una sofferenza non mia”. Gesù che, quando cade per la terza volta, esprime una volontà di amorevole tenerezza sorprendente in un condannato a morte: “Per l’ultima volta / la mia terra fammi baciare, / qui da mia madre e più alto padre, /appresi ogni strumento d’amore”.
Mencarelli, nel suo libro lei mette a confronto due cammini: quello dell’uomo moderno, che è la “croce”, e quello di Cristo sul Calvario, che è la “via”. Qual è il messaggio che ha voluto lanciare?
Che c’è da una parte quella che sembra essere a tutti gli effetti una grande vittoria personale ma che poi, alla lunga, si dimostra essere una vittoria cieca, che non lenisce il dolore, che non muta. E dall’altra parte c’è quello straordinario percorso che è la passione di Cristo, che sta lì ad indicare un’altra via possibile: quello che sembra solo dolore spesso è qualcosa di più ampio rispetto a quello che noi riusciamo a vedere al momento.
Le quattordici stazioni della prima parte descrivono un uomo che oscilla tra ambizione, paura della sconfitta e senso di vuoto. L’uomo si sente invincibile, ma rischia di farsi male da solo… Qual è l’umanità che vuole descrivere?
Quella dell’uomo che non entra minimamente in relazione con gli altri, la cui unica aspirazione è quella di essere ammirato, osannato. Ma quando non riesce a entrare nell’orizzonte degli altri, rischia di fallire. In fondo a questo uomo apparentemente realizzato, vincente, a cui non manca nulla, in realtà manca tutto, perché nella sua esistenza l’unica cosa che ha fatto è desiderare, vivere questo desiderio malato di essere ammirato e invidiato. È un po’ l’antitesi dell’esempio cristiano dell’uomo che entra in relazione con gli altri, offre il proprio dolore, magari per trovare attraverso l’esperienza del dolore una possibilità più ampia ed una vittoria che sia degna di questo nome.
Nella nostra società cerca di evitare la sofferenza e il dolore, puntando a esorcizzarla. Non sembra però riuscirci…
È il grande fallimento della nostra epoca: occultare il dolore e la morte serve a tutto tranne che ad eliminare queste presenze. Quindi queste, che sono state sempre presenti nella nostra vita, diventano delle novità quasi perverse. Invece fanno parte del nostro cammino; esso è fatto di meravigliose, straordinarie opportunità, ma ha al suo interno anche la compresenza di questi elementi che, quando vengono affrontati, hanno spesso come dimensione ultima qualcosa che non è dolore, poiché spesso il dolore è premessa a qualcosa di più grande che noi in quel momento non riusciamo a cogliere.
La prossima Settimana Santa sarà la seconda in tempo di pandemia, che lo scorso anno abbiamo vissuto in pieno lockdown, senza celebrazioni in presenza. Secondo lei cosa ci sarà di diverso?
L’anno scorso eravamo mossi da principi e da una forza molto più solidi rispetto ad adesso. Quest’anno, in questo secondo lockdown - perché alla fine con le tante zone rosse che ci ritroviamo a tutti gli effetti in una situazione molto simile al primo lockdown - ci ritroviamo come famiglia, come società, un po’ più sofferenti, perché la questione comincia a essere più lunga rispetto all’orizzonte che ci era stato prospettato e che alla fine non è stato rispettato. Quindi, questo secondo momento di “clausura” è senz’altro più duro. Ma in fondo, un po’ come per la Pasqua, da un punto di vista paradigmatico è a tutti gli effetti la condizione “migliore” per vivere questo momento, perché dobbiamo vivere questa sofferenza in attesa di questa primavera di rinascita. E quindi aspettiamo per rinascere.
Cosa rappresenta per lei la Via Crucis?
Per me - io che mi definisco un aspirante credente - la Via Crucis è uno straordinario evento in cui la storia dell’umanità si riassume in una specie di perfezione drammaturgica, dove l’immensamente grande e l’umano vengono a toccarsi attraverso la porta del dolore e della morte. È questo il rovesciamento: la passione di Cristo non è un momento di nascita ma un momento di morte che miracolosamente apre alla nascita eterna per ognuno di noi.
Quindi quella che ci propone Gesù Cristo è un grande scommessa…
Sì, una grande scommessa. Io la definisco una grande aspirazione, perché noi siamo fatti per aspirare a qualcosa di più grande di noi ma che è presente nella nostra vita, nei nostri affetti. Perché noi non siamo fatti per obbedire al nulla, come ci viene raccontato in questo tempo.
Franco Pozzebon
(Da L'Azione del 28 marzo 2021, pag. 4)
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