Bandiere e senso di appartenenza
L'editoriale del direttore de L'Azione don Alessio Magoga.
Durante la penultima tappa del Giro d’Italia, un enorme stendardo con un leone dorato su campo scarlatto faceva bella mostra di sé sui prati di Asiago. Impossibile non vederlo. Che cosa rappresenta per un veneto – mi chiedo – la bandiera di San Marco? Un senso di appartenenza e di attaccamento alla propria regione e alle proprie radici? Oppure è manifestazione di una volontà di autonomia e di indipendenza? O tutte e due le cose insieme? Nei giorni scorsi – in concomitanza con l’adunata degli alpini – un altro stendardo si è visto pressoché ovunque in terra veneta: il Tricolore, la bandiera d’Italia. Anche oggi, un po’ meno numerose, si vedono bandiere e bandierine garrire al vento, un po’ sbiadite – per la verità – e in via di progressivo smantellamento, ma disseminate in ogni dove, segno di una presenza davvero capillare. Ma in Italia – ahimè – dobbiamo riconoscere che la nostra bandiera non è un simbolo molto sentito.
Nel gennaio scorso aveva fatto scalpore il caso di due giovani connazionali che in Thailandia, dove si erano recati per turismo, erano stati sorpresi dalle autorità locali nell’atto di danneggiare una bandiera di quel Paese nell’hotel dov’erano alloggiati. Si scusarono dicendo che erano ubriachi e che non si rendevano conto di compiere un reato, perché venivano da un Paese – l’Italia – dove un atto del genere, secondo loro, non era così rilevante. Alla polizia dissero che in Italia “la nostra bandiera non è così importante”. La cosa, tra l’altro, non è vera, dal momento che la Costituzione dedica un articolo – il numero 12 – alla bandiera della Repubblica (“il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni”) e anche in Italia bruciare o strappare la bandiera è considerato vilipendio e quindi reato ai termini di legge. Più in generale da noi è il concetto di Nazione o di Patria che “zoppica”. “Rispetto agli stranieri – cantava ironicamente Gaber alcuni anni or sono – noi ci crediamo meno… il grido ‘Italia, Italia’ c’è solo alle partite”.
In effetti il tricolore da noi – e penso al nostro Veneto in particolare – sventola solo in determinate situazioni: i mondiali di calcio, qualche manifestazione sportiva di impatto o l’adunata degli alpini, appunto… In queste occasioni in qualche modo riaffiora – ma spesso solo per breve tempo – un senso di unità, di solidarietà e – per usare ancora una volta un termine caro a Gaber – una forma di “appartenenza”. Forse noi ci crediamo meno a questi simboli perché siamo un popolo di ironici e smaliziati, molto più dei cittadini di altri Paesi. O forse perché 156 anni di unità nazionale sono ancora una storia troppo breve per creare un’identità condivisa, mentre prevalgono in noi ancora sentimenti localistici e una visione campanilistica – al limite individualistica – della società. O forse perché da noi le parole “patria”, “nazione”, “inno nazionale”, “bandiera”… hanno la pesante ipoteca di un passato ingombrante – quello della retorica del ventennio fascista per intenderci – dal quale ci si vuole ad ogni costo liberare, col rischio però di buttare il bambino insieme all’acqua sporca.
All’esterno degli edifici pubblici istituzionali, nel nostro Veneto, generalmente sventolano tre bandiere: quella di San Marco, simbolo della Regione; il Tricolore, simbolo della nostra nazione; la bandiera europea, con le dodici stelle argentate su campo azzurro. Tutte e tre, insieme. Come a dire che si può essere veneti, italiani ed europei nello stesso tempo, senza contraddizione. Molto probabilmente è una pretesa per noi ancora troppo alta e fatichiamo a realizzarla adeguatamente. Eppure tutto ciò che mette insieme, stabilisce un’appartenenza e crea un’unione – “simbolo” vuole dire proprio questo! – oggi ci è quanto mai necessario per tirarci fuori dalle angustie di un individualismo dilagante. Il prossimo 2 giugno – festa della Repubblica – vedremo di nuovo sventolare le bandiere. Sarebbe bello che ci aiutassero a sentirci un popolo unito. Non contro altri, ma semplicemente un popolo che avverte la necessità e la bellezza dell’unione e della solidarietà. Un popolo in cui ciascuno impara un po’ di più – come suggerisce ancora Gaber – che “appartenenza è sentire gli altri dentro di sé”.
Don Alessio Magoga
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