L'indagine Censis dipinge un'Italia con i nervi a fior di pelle e senza visione comune
L'editoriale del direttore don Alessio Magoga.
"L’Italia dei rancori" è una delle immagini con cui è descritta la società italiana nell’ultimo Rapporto sullo stato sociale del Paese curato dal Censis, l’istituto di statistiche diretto da Giuseppe De Rita. Non è l’unica immagine che il 51º Rapporto veicola ma è certamente quella che è rimbalzata di più sui mezzi di comunicazione: “Il rancore è di scena da tempo nella nostra società”. Più di qualcuno – sociologo o semplice cittadino – ha commentato sarcasticamente dicendo che non serviva l’indagine del Censis per dire che il rancore è cresciuto all’interno della nostra società. Basta guardarsi attorno – andare al supermercato, camminare per strada, fare una fila ad un qualsiasi sportello, buttare l’occhio sui commenti nelle pagine del web... – per rendersene conto. L’imbruttimento generale è piuttosto palese: i nervi sono a fior di pelle, l’aggressività pure. Il Censis ha semplicemente dato una veste scientifica ad un sentimento che cova da tempo nell’animo di molti italiani – non tutti – e che trova modo di esprimersi, a volte, anche in forme drammatiche.
Tuttavia ci sono anche altri aspetti che il Rapporto mette in rilievo, come il fatto che una ripresa economica è effettivamente in atto, trainata soprattutto dall’industria e dalla tecnologia, e si assiste pure ad una ripresa dei consumi, grazie all’immissione nel mercato di una discreta quantità monetaria, fino ad ora investita e bloccata nelle speculazioni finanziarie. Gli effetti positivi di questi lenti ma reali processi sul sentimento generale della società italiana però sembrano tardare: crescono invece il rancore e la sfiducia nelle istituzioni, soprattutto nella politica. Come mai?
Il Rapporto del Censis suggerisce delle interessanti chiavi di interpretazione per comprendere la genesi di questi sentimenti negativi. Una ha a che fare con la frammentazione della nostra società: nulla di nuovo per la verità, solo una conferma ripetuta ormai da qualche anno. Il tessuto relazionale delle nostre città – ma anche dei nostri paesi – è fortemente compromesso e in gran parte corroso.
L’altra chiave interpretativa riguarda la mancanza di futuro, o meglio, di una visione di futuro: “Il futuro è schiacciato sul presente”. Questo schiacciamento inibisce qualsiasi forma di progettualità, di sguardo a lungo termine, di prospettiva...
Forse si può semplicemente dire – mettendo insieme le due cose – che manca una visione comune di società: una immagine condivisa di quello che vogliamo essere e di quello che vogliamo diventare come Paese. Manca un progetto comune – non solo mio – che ci dia fiducia e che ci faccia battere il cuore come italiani. Ognuno invece procede a tentoni, per conto suo, alla ricerca di una improbabile felicità individualistica.
“Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera”: sembra questa la cifra o il motto della condizione dell’italiano d’oggi.
In questo orizzonte sembrano sempre più rare le “narrazioni comuni”: cioè quei racconti dentro i quali un popolo si ritrova e si riconosce. Ha fatto scalpore una recente intervista a Cacciari che se la prende coi cristiani, perché sono in parte responsabili della banalizzazione del Natale: secondo il filofoso veneziano, hanno lasciato cadere nel dimenticatoio il racconto e il significato del racconto che stanno alla base del Natale stesso. Intere scolaresche – denuncia Cacciari – stanno davanti a immagini sacre e restano mute perché non sanno decifrarle: hanno perso la memoria dei racconti biblici da cui quelle immagini si sono originate. La Bibbia – con i suoi racconti e le sue narrazioni – per secoli è stata una riserva di senso per l’uomo: lo ha aiutato a dare un nome non solo alla sua relazione con Dio, ma anche alle dinamiche del suo mondo interiore e a quello delle relazioni con gli altri. Di questo senso comune – come di un panorama che dà significato e dentro il quale si colloca il viaggio che è la vita di ognuno di noi – oggi si avverte drammaticamente la mancanza.
Forse la sete diffusa – da più parti riconosciuta – di racconti personali anche nel campo giornalistico e letterario è indizio di un bisogno e di una ricerca di senso. Si sono persi i grandi racconti – o non si ricordano più – e allora si cerca un senso nelle narrazioni personali o nel vissuto di uno come me, nella speranza di trovare qualcosa che mi possa essere d’aiuto. Un po’ poco, diremmo noi: le storie personali in realtà sono tutte diverse e ognuna trova – se ci riesce – un suo senso. Il rischio è quello di esporsi ancora di più alla frammentazione. Ma questo bisogno può essere un’opportunità se è vero che nel racconto di sé, quando è profondo e autentico, si scopre quello che è vero per tutti e vale universalmente. Un supplemento di interiorità, allora, in questo tempo frammentato e rancoroso potrebbe costituire una via di salvezza.
Alessio Magoga
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