SONO GLI UOMINI A FARE LE GUERRE
L'editoriale del direttore, don Alessio Magoga
La guerra in Ucraina così come l’attacco di Hamas in Israele e la ritorsione ebraica a Gaza fanno toccare con mano, ancora una volta, che sono gli uomini – cioè, proprio i maschi – che fanno le guerre. Tra i combattenti, dell’uno e dell’altro fronte, non si scorgono donne: nelle trincee ucraine si vedono volti emaciati di uomini, giovani e non più giovani; i terroristi di Hamas, responsabili dell’attacco del 7 ottobre, a quanto risulta, “erano” tutti uomini; le truppe di invasione israeliane sembrano costituite in maniera preponderante (se non esclusiva) da uomini. Se poi andiamo indietro nel tempo, gli attentati delle Torri gemelle e quelli che hanno insanguinato l’Europa negli anni successivi (da “Charlie Hebdo” al Bataclan) hanno visto in azione sempre uomini. Appare con evidenza, quindi, che non sono le donne ad imbracciare le armi e non sono loro in prima linea: in questo caso, la forza fisica – con buona pace di chi ritiene che essere uomo e donna sia solo una scelta personale – fa la differenza.
Uomini sono anche – restando al duplice scenario citato all’inizio – i principali “attori” di queste immani tragedie: Putin e Zelensky, nel primo caso, Sinwar e Netanyahu, nel secondo. Uomini sono anche a capo di Armenia e Azerbaijan, dove serpeggia il conflitto per l’enclave del Nagorno-Karabakh (ormai “assorbita” dagli azeri); uomini sono anche i capi delle guerre civili nel Sudan e in Libia... e così via. Ovunque ci siano guerre ci sono uomini in combattimento e uomini al comando.
Tutto ciò non significa che le donne non approvino la guerra o che siano necessariamente tutte “per la pace”. Molte donne sono coinvolte attivamente nei conflitti e, pur non trovandosi in trincea, ricoprono ruoli logisitici, di cura, di informazione o disinformazione... Altre sostengono i combattenti e le ragioni della guerra in altre forme meno appariscenti, ma non meno letali. Sicuramente le donne fanno le spese delle guerre e ne subiscono gli effetti, come i bambini e gli anziani.
Se ci fossero più donne al comando, le cose andrebbero diversamente? Non è facile dirlo: nei casi citati non se ne ha l’evidenza, dal momento che vi sono solo “uomini” al potere. Uno dei pochi casi di una donna al comando, nel secolo scorso, è quello del premier britannico Margaret Thatcher, che nel 1982 non ebbe molti tentennamenti quando si trattò di intervenire militarmente contro l’Argentina per riconquistare le Isole Falkland. Tuttavia, una maggiore presenza delle donne nelle stanze dei bottoni è un’opzione da provare e senza dubbio da promuovere. Su questo, eccettuata l’Europa, non sembra però che ci siano significativi passi in avanti a livello mondiale. A cominciare dagli Stati Uniti (che fine ha fatto Kamala Harris?) fino alla Cina (nelle solide mani di Xi Jinping). La tanto criticata Chiesa cattolica la questione del ruolo della donna, per lo meno, se la pone, come testimonia il Sinodo universale e il percorso sinodale della Chiesa italiana.
Un’ultima – e amara – considerazione riguarda il progressivo sdoganamento del ricorso alla violenza fisica e alla guerra come strumenti di risoluzione delle tensioni tra Stati (ma anche tra persone, nelle nostre società sempre più incattivite) anche nella nostra Europa (Ucraina docet!). Forse un segno della crescente difficoltà di dialogo che il nostro tempo soffre e che trova nella violenza l’ultimo e disperato tentativo per “entrare in relazione” con gli altri: una dinamica, quella che sostituisce alle parole le armi, tipica delle epoche di crisi e di passaggio.
Urge, dunque, a livello mondiale una nuova cultura della donna, perché possa assumere più agevolmente ruoli di guida. Ma anche una nuova visione dell’uomo, che si liberi della convinzione che la violenza è uno strumento “legittimo” per affermare la propria identità. Se per “patriarcato” si intende questo, allora è bene andare oltre.
Alessio Magoga
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