VIVERE LA PROPRIA FEDE... IN SICUREZZA
L'editoriale del direttore don Alessio Magoga.
“Funerali sì (con al massimo 15 persone), messe con il popolo no”: questo il succo dell’intervento del premier Giuseppe Conte alla conferenza stampa di domenica scorsa, nella quale ha presentato il nuovo decreto del presidente del Consiglio dei ministri (Dpcm). Non si sono fatte attendere vivaci reazioni. Tra queste, anche la nota diramata a brevissimo giro di posta dall’Ufficio nazionale comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana che, con toni inusuali, ha espresso il disappunto dei vescovi perché “il Dpcm – si legge nella nota – esclude arbitrariamente la possibilità di celebrare la messa con il popolo”. L’avverbio “arbitrariamente” rivela tutto il disagio dei pastori, secondo i quali non si è tenuto conto di due importanti elementi che la nota puntualmente ribadisce. Innanzi tutto sembra sia stata inutile l’intensa interlocuzione delle scorse settimane tra Segreteria della Cei e Governo: un dialogo che, secondo gli auspici dei vescovi, avrebbe dovuto favorire la comprensione delle attese e delle “esigenze” pastorali della Chiesa. Una comprensione che, a quanto pare, non c’è stata, almeno non nella misura attesa. In secondo luogo, sempre secondo i vescovi il Dpcm non tiene adeguatamente in considerazione “la libertà di culto”, cioè il fatto che lo Stato non deve avocare a sé quelle che sono le responsabilità della Chiesa, “chiamata ad organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte, ma nella pienezza della propria autonomia”. Come a dire che la Chiesa non intende affatto prescindere dalle direttive del Dpcm, ma chiede di poterle far osservare negli ambiti che le sono propri senza il diretto intervento da parte dello Stato.
Il disappunto dei vescovi si origina anche da un altro motivo, vale a dire la consapevolezza che la vita cristiana come l’impegno caritativo “nasce – afferma la nota – da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale”. Insomma, non c’è vita di fede senza vita comunitaria e senza sacramenti. A modo suo, anche papa Francesco ha richiamato con forza questa verità nell’omelia di venerdì 17 aprile a Santa Marta. A questa consapevolezza, assunta in modo perentorio, si appella dall’inizio dell’emergenza anche una parte non piccola delle comunità cristiane che ha vissuto con profondo disagio la linea seguita sino ad ora dai pastori. La leale disponibilità dimostrata dai vescovi al dialogo e alla collaborazione con il Governo, manifestatasi in modo eclatante nell’azzeramento di tutte le attività pastorali “in presenza”, è stata interpretata come un segno di debolezza e un cedimento della Chiesa nei confronti dello Stato. “Così leali con lo Stato da diventarne, di fatto, succubi”, ha accusato provocatoriamente qualcuno. In un contesto che ha manifestato un crescente malessere all’interno della comunità cristiana, non è stato d’aiuto il fatto che andare a pregare in chiesa non sia stato riconosciuto, nei precedenti Dpcm, come “esigenza essenziale”: per fare una visita in chiesa, anche da soli, era (fino a poco fa) necessario avere un altro motivo “essenziale”, come il lavoro, fare la spesa o andare in edicola… Se si possono togliere tutte le messe “in presenza” e pregare in chiesa non è un “bisogno essenziale”, significa – hanno dedotto alcuni – che, per l’attuale governo o per il “comitato tecnico”, la dimensione spirituale è qualcosa di opzionale, di accessorio e quindi sostanzialmente inutile. Alcuni episodi, poi, in cui delle messe sono state bruscamente interrotte dalle forze dell’ordine, perché era presente qualche fedele in più rispetto a quanto prescritto dalla legge, hanno ulteriormente esacerbato gli animi. Si comprende, purtroppo, come tutto questo sia esposto ad una facile strumentalizzazione politica, dal momento che una eventuale contrapposizione tra Chiesa e Stato si presta ad essere cavalcata dall’opposizione (esterna e interna alla maggioranza) per indebolire il governo Conte. Nella serata del 26, dopo la nota Cei, è arrivata la controreplica del premier, che ha sì confermato quanto detto nella conferenza stampa, ma ha pure assicurato che “nei prossimi giorni si studierà un protocollo che consenta quanto prima la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche in condizioni di massima sicurezza”. Pertanto, ci si può attendere che a breve (rispetto ad oggi 28 aprile) ci siano dei chiarimenti che consentiranno un riavvicinamento delle posizioni. Da parte nostra, auspichiamo maggiore pacatezza dei toni e maggior equilibrio da parte di tutti, per non vanificare un percorso faticoso che ha richiesto anche alle comunità cristiane dolorose rinunce. Facciamo nostro l’appello di Mauro Ungaro, presidente della Fisc, il quale si augura che “il confronto possa portare in breve tempo a soluzioni che salvaguardino la necessaria prevenzione sanitaria ma tutelino parimenti il diritto costituzionale dei cittadini italiani a vivere la dimensione sacramentale della propria fede”.
Don Alessio Magoga
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