IL GIUDICE ROSARIO LIVATINO: UN CREDENTE CREDIBILE
L'editoriale del direttore don Alessio Magoga
A molti veneti la questione “mafia” potrà sembrare cosa lontana. Quasi una realtà che non li riguardi. Eppure è sempre più chiaro – ci piaccia o no – che le organizzazioni di stampo mafioso non sono solo un problema delle regioni del Sud, ma si sono infiltrate in varie forme anche nel Veneto, come testimoniano alcuni importanti processi in corso a Verona e a Mestre.
Anche per questo la beatificazione di una figura come Angelo Rosario Livatino, il giovane giudice del Tribunale di Agrigento, ucciso dalla mafia il 21 settembre del 1990 a soli 38 anni e proclamato beato nella Cattedrale di Agrigento lo scorso 9 maggio, è qualcosa che ci interpella e ci riguarda più di quanto potremmo immaginare. Un «martire della giustizia e della fede», lo ha definito papa Francesco al “Regina Coeli” di domenica scorsa, che «nel suo servizio alla collettività come giudice integerrimo, non si è lasciato mai corrompere, si è sforzato di giudicare non per condannare ma per redimere». «Il suo lavoro – ha ribadito il Pontefice – lo poneva sempre “sotto la tutela di Dio”; per questo è diventato testimone del Vangelo fino alla morte eroica. Il suo esempio sia per tutti, specialmente per i magistrati, stimolo ad essere leali difensori della legalità e della libertà».
La data della beatificazione è stata scelta appositamente per ricordare il celebre intervento di San Giovanni Paolo II. Era il 9 maggio del ’93, quando nella Valle dei Templi si alzo stentorea la voce di papa Wojtyla che pronunciò parole durissime contro mafia e mafiosi: «Dio ha detto una volta: non uccidere. Non può l’uomo, qualsiasi uomo, qualsiasi umana agglomerazione – la mafia – non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo, mi rivolgo ai responsabili: convertitevi!». Sono seguite poi le condanne da parte di papa Benedetto XVI e la scomunica di Papa Francesco pronunciata nel 2014 nella Piana di Sibari: i mafiosi – denunciò Bergoglio – «non sono in comunione con Dio… e nella loro vita seguono questa strada di male». Nel 2018, nuova scomunica di Francesco: «Non si può credere in Dio ed essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore». Interventi molto netti, quelli dei Pontefici, per togliere qualsiasi “copertura religiosa” alle organizzazioni di stampo mafioso, che non raramente si compiacciono di richiamarsi alla fede ed ai santi, quasi per giustificare i più scandalosi delitti.
La mafia, come ogni organizzazione malavitosa, pone la libertà dell’uomo di fronte ad una scelta molto difficile: seguire la via “comoda” di assecondare i violenti oppure quella “rischiosa” della legalità? Una volta posti dinanzi al male, cosa sapremmo scegliere? Quali scelte sapremmo compiere nell’esercizio del nostro lavoro e del nostro dovere? Sapremmo rinunciare ad una raccomandazione, rifiutare un’offerta per “chiudere un occhio”, mettere la faccia per testimoniare la verità…?
Nella sua breve vita, Rosario Livatino, come giudice e come credente cresciuto nell’Azione Cattolica, non ha avuto dubbi su quale scelta fosse necessario compiere. Anche a costo della vita. La sua testimonianza dimostra che c’è una “differenza cristiana”. O forse, più semplicemente, che c’è una differenza tra “uomini e no”, come scriveva un altro siciliano, Elio Vittorini, e tra “uomini e quaquaraquà”, per dirla con le parole di Sciascia. In termini apparentemente molto “laici” Livatino amava ripetere: «Alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili». Come a dire che la fede è autentica solo se trasforma la vita e rende capaci di scelte coerenti e coraggiose. Il resto rischia di essere paludamento e chincaglieria di cui può agghindarsi anche un malavitoso, al Sud come al Nord.
Alessio Magoga
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