NESSUNA GIUSTIFICAZIONE PER LA VIOLENZA DI GENERE
L'editoriale del direttore, don Alessio Magoga
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione...». Inizia così l’articolo terzo della Costituzione italiana. Non sembra esserci spazio per letture parziali o revisioniste, che giustifichino o in qualche modo tollerino forme di maltrattamento o di sopruso nei confronti della persona, tanto meno della donna.
E, invece, non sembra essere così evidente. Nemmeno in un periodo in cui si susseguono tragicamente notizie di femminicidi. Così, a Brescia, un Pubblico Ministero ha chiesto l’assoluzione per l’ex marito di una donna, nata in Bangladesh ma cresciuta in Italia, che nel 2019 ha denunciato le violenze subite dall’ex coniuge. Secondo il Pm, il marito – anch’egli bengalese – non si dovrebbe considerare colpevole in quanto il suo comportamento è “frutto della cultura” del suo Paese di provenienza, il Bangladesh appunto. Per il pubblico ministero bresciano «la compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa (la donna, ndr) da parte dell’imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia della medesima, atteso che la disparità tra l’uomo e la donna è un portato della sua cultura e che la medesima parte offesa aveva persino accettato in origine».
La Procura di Brescia è subito insorta e si è affrettata a prendere le distanze dalle affermazioni del Pm. Il Procuratore, Francesco Prete, ha precisato che la Procura bresciana «ripudia qualunque forma di relativismo giuridico e non ammette scriminanti estranee alla nostra legge»: la legge italiana – ha aggiunto – «è sempre stata fermissima nel perseguire la violenza, morale e materiale, di chiunque, a prescindere da qualsiasi riferimento “culturale”, nei confronti delle donne».
Non potendo ricostruire ora i particolari del caso (come il punto di vista della donna) e gli sviluppi giudiziari (la sentenza è prevista per ottobre), va detto che non si tratta di un fatto isolato. Anche in altri Paesi europei talvolta il riferimento alla “cultura” di provenienza viene utilizzato come argomento per scagionare o comunque attenuare le accuse rivolte agli imputati. Solo per citare un esempio che all’epoca fece scalpore, nel 2007 dei giudici tedeschi riconobbero le attenuanti in un caso di violenza sessuale nei confronti di una donna e l’imputato (un uomo) ebbe uno sconto di pena perché – si legge – «si deve tener conto delle sue impronte culturali ed etniche: è un sardo». Già, proprio così…
Questa tipologia di situazioni è destinata probabilmente ad aumentare nel tempo e pone dei seri interrogativi ai quali va data una precisa risposta. È possibile giustificare alcune tipologie di reato, come i maltrattamenti e la violenza nei confronti delle donne, qualificandoli come “fatto culturale”? Pur ammettendo che il modo di vivere le relazioni interpersonali (e soprattutto familiari) risente della cultura di provenienza, non dovrebbe essere valutato sulla base delle leggi del Paese in cui si vive, in questo caso l’Italia e non il Bangladesh? Non c’è il rischio di introdurre una sorta di “doppio ordine legislativo” – quello del Paese ospitante e quello della cultura del Paese d’origine – che creerebbe di fatto uno “Stato nello Stato”? Restando nel caso in oggetto, non si porta indietro la lancetta dell’orologio della storia, cancellando o relativizzando alcune fondamentali conquiste in tema di rispetto della persona e di pari dignità tra uomo e donna, che la nostra Costituzione ha affermato in maniera tanto cristallina?
Rispondere in modo dubbioso e incerto a questo genere di domande significa offrire un formidabile assist a quella subcultura della violenza che cova anche “a casa nostra” e che, purtroppo, la cronaca nera ci racconta ancora troppo frequentemente. E spinge le donne, specie se straniere, a non denunciare, dato che in molti casi, per loro, è già un atto eroico esporsi.
Alessio Magoga
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