QUANDO UN PRETE CAMBIA PARROCCHIA
L'editoriale del direttore, don Alessio Magoga
Nella vita della Chiesa non ci sono solo i preti e non ci sono solo i cambiamenti dei parroci. C’è anche molto altro. La vita della Chiesa, come pure la vita di una comunità cristiana, non è soltanto determinata dalla figura del presbitero (o dall’equipe di presbiteri) che la presiede. C’è molto di più, che ha a che fare con la vitalità e la ricchezza dei carismi dei fedeli laici, dei religiosi o delle religiose che vi risiedono e vi prestano servizio... Fatto salvo tutto questo, resta vero però che il presbitero ricopre un ruolo di una certa rilevanza e il cambio del prete è un momento particolarmente delicato: per la vita della comunità coinvolta, certamente, ma anche per la vita del prete stesso.
Forse su questo secondo versante – se vogliamo più “esistenziale” – ci si sofferma poco, magari perché si pensa (anche giustamente) che il prete “sa” di essere a servizio delle necessità dell’intera diocesi e quindi “ha messo in conto” che nel corso della sua vita svolgerà il suo ministero in più comunità, lì dove il suo vescovo, in accordo con i suoi più stretti collaboratori, riterrà opportuno a beneficio dell’intera comunità diocesana. Nella liturgia dell’ordinazione presbiterale, infatti, il vescovo chiede al novello presbitero “di esercitare il ministero sacerdotale” come suo fedele cooperatore “nel servizio del popolo di Dio, sotto la guida dello Spirito Santo” e, subito dopo, gli chiede anche “filiale obbedienza”. Come a dire che ogni prete diocesano “sa” che una certa “mobilità” è costitutiva del suo ministero, perché – come Gesù raccomanda al discepolo che intende seguirlo – «le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo». Sapere intellettualmente e acconsentire anche con il cuore a questa “opzione fondamentale”, tuttavia, non toglie nulla alla fatica e alle resistenze che talora lasciare una parrocchia (o una comunità o un certo servizio) può comportare.
Per il prete, il cambio di parrocchia richiede necessariamente una profonda rivisitazione delle proprie relazioni: alcune persone, divenute significative e familiari in anni di collaborazione, dovranno essere affidate al proprio successore, mentre si dovranno ricostruire – con tutta la fatica del caso – nuove relazioni con i collaboratori della nuova comunità. Sarà necessario “volere” cercare nuovi equilibri che non saranno – molto probabilmente – immediati. Se le relazioni vissute nella precedente esperienza di servizio si sono rivelate particolarmente buone e positive, venir via risulterà piuttosto doloroso e richiederà uno sforzo ascetico (sia al prete sia alla comunità) ancora più grande.
Ogni cambiamento rilevante poi, come può essere il cambio di parrocchia, fa percepire sulla propria pelle il fatto che la vita è provvisorietà, cammino, precarietà: gli anni passano e non c’è nulla di definitivo e di stabile. Il prete sarà costretto a fare i conti con la propria finitudine e con la propria creaturalità: anche con il mistero della propria morte, di cui ogni cambiamento radicale è in qualche modo prefigurazione. Certo, si dirà, ma il prete ha la fede! Anche in questo caso, la dimensione spirituale – senza alcun dubbio di grande aiuto – non esime dal fare i conti con la propria umanità e con le proprie debolezze. E l’esito del confronto non è “scontato” nemmeno per lui.
Il cambio, tuttavia, non è sinonimo soltanto di dolorosi tagli e di sofferti confronti con la propria finitezza. Può anche essere l’occasione per una rinascita e per una ripartenza: un’opportunità nuova che viene data per ricominciare. Ciò vale per il prete giovane e pieno di energie, che ha tutta la vita davanti, ma vale anche per il prete anziano, che, svincolato da alcune gravose responsabilità, potrà scoprire nuove forme di servizio e trovare tempi più distesi per la preghiera e per la cura delle relazioni.
L’esito di un passaggio come questo dipenderà molto dalla maturità umana e spirituale del prete. Ma dipenderà anche dalla qualità delle relazioni che il prete ha (o non ha) coltivato con chi ha la responsabilità di decidere tali cambiamenti. Dipenderà anche dalla qualità delle relazioni con la comunità (o le comunità) che è chiamato a lasciare. Che questo delicato “passaggio”, nonostante le inevitabili fatiche iniziali, riesca bene è a beneficio di tutti: a beneficio del prete, certo, ma anche della comunità affidatagli e, in definitiva, della diocesi intera. Ed è proprio quello che tutti si devono augurare.
Alessio Magoga
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