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NON MOLTI PRETI, MA PRETI ADATTI

L'editoriale del direttore, don Alessio Magoga

NON MOLTI PRETI, MA PRETI ADATTI

“La Chiesa non ha bisogno di molti preti ma di preti adatti”. Sono state queste le parole con cui don Marco D’Agostino, presbitero della diocesi di Cremona, ha iniziato il suo intervento durante il corso di aggiornamento tenutosi nei giorni scorsi al Cavallino (Ve) e dedicato al tema: “Essere preti oggi nel presbiterio”.

Preti adatti a cosa? Per don Marco si tratta di essere adatti a questo mondo, per saperlo amare e servire come ha fatto Gesù, nel silenzio e nell’autenticità, con discrezione. “Il mondo ha bisogno di preti – ha continuato don D’Agostino – che ci mettano la faccia senza darsi troppa importanza”: preti capaci di essere più umani, “con un cuore che funzioni, con una fede impastata di gioie e di dolori nostre e altrui”; preti “un po’ meno preti, cioè meno clericali col rischio di essere da soli, senza confronti e aiuti, dentro la parte, il ruolo”. Senza paura di amare troppo, senza timore di stare con la gente, di farsi carico della pesantezza dei dolori degli altri, di condividere gioie e tristezze, scelte e fragilità.

Stando alle parole di don Marco, la condizione fondamentale – basilare – perché un prete sia veramente tale e possa vivere il suo ministero insieme agli altri preti, in una forma veramente comunitaria, è che sia davvero uomo: in sintesi, “più uomini, più preti”, perché “se l’uomo non c’è, non c’è nemmeno il prete”. E solo uomini autentici possono dar luogo ad un presbiterio unito, che sappia – più a gesti che a parole – prendersi cura di sé stesso e soprattutto delle sue parti più fragili: i preti anziani, quelli malati, quanti vivono situazioni di particolare fragilità...

Per il prete, questo percorso di “umanizzazione” si realizza, certo, dentro ad un intreccio di relazioni con gli altri presbiteri ma anche dentro allo scambio, al confronto e alla condivisione con i laici, cioè con gli uomini e le donne della sua comunità, con la sua famiglia di origine, con quanti per vari motivi gli è dato di incontrare e di conoscere nel corso della sua vita. La qualità delle relazioni che il prete instaura con i confratelli, pertanto, dipende in maniera rilevante anche dalla qualità delle relazioni che egli intesse con i laici.

“Quello che spero per il futuro – ha detto un giovane prete, portando la sua testimonianza in un momento di condivisione – è un presbiterio più unito, più fiducioso e più aperto alla speranza, maggiormente disposto a riconoscere e condividere le cose belle del proprio ministero: non un presbiterio frantumato nella dispersione delle tante cose da fare, ma spezzato come il pane eucaristico”. Parole, queste, davvero stimolanti per chi vive la vocazione di prete ma anche per ogni persona – laica o consacrata che sia – che intende conservare il senso e la lucentezza della propria scelta di vita.

“Se la tua vita si spegne – ha ribadito dal canto suo don Marco –, è segno che qualcosa non funziona”: come a dire che bisogna mantenere il contatto con sé stessi e prendersi cura di quello che attraversa il proprio cuore. La cosa più terribile - ha ricordato ancora don D’Agostino - è arrivare a non provare nulla, “come il Lucifero dantesco piantato in un lago ghiacciato”. Perché questo non accada, allora, è saggio aiutarsi a vicenda e anche lasciarsi aiutare: preti e laici insieme. Forse così, dopo gioie e fatiche, ci sentiremo – per dirla con Ungaretti – “una docile fibra dell’universo”: un po’ più in armonia con quanto ci circonda e un po’ più adatti a metterci al servizio della Chiesa e degli uomini e delle donne di questo nostro – drammatico – tempo.

Alessio Magoga

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